Marani, Diego: La grammatica dell’oblio (2024)
FORUM TOMIZZA 2024
CONVEGNO GRAMMATICA DELL'OBLIO
PALAZZO PRETORIO, CAPODISTRIA
Diego Marani
"La grammatica dell'oblio"
Quando mi è stato chiesto di preparare un discorso sulla grammatica dell’oblio per il Forum Tomizza, mi sono messo a rifettere sul titolo sentendo subito l’incongruenza di due parole come grammatica e oblio. Come mettere insieme un concetto legato all’emozione e all’irrazionale con uno che invece richiama la regola e la costruzione logica? Ho cominciato allora a ragionare sulle due parole. Cos’è l’oblio? E subito mi è venuta la risposta: il contrario della memoria. Appena questa parola è affiorata al mio pensiero, l’ho sentita come un macigno. L’oblio vola, la memoria sprofonda. L’oblio è un’assoluzione, la memoria una condanna. Ma l’oblio è anche smarrimento, perdita, distruzione. La memoria invece conserva, tramanda, protegge. Quando poi ho puntato lo sguardo verso i luoghi dove sarei venuto a parlare di memoria e oblio, mi è venuto da pensare che memoria e oblio non hanno la stessa valenza in tutti i luoghi. C’è una geografia dell’oblio che dobbiamo considerare.
Vengo da una terra dove forse l’oblio è più facile. La piatta pianura ferrarese non offre spunto alla memoria. Non ci sono nel paesaggio abbastanza appigli per trattenere il ricordo. I campi cambiano coltivazioni, i paesi si trasformano e anche il corso dei fiumi, se rimane sempre lo stesso, in un paesaggio diverso sembra cambiare anche lui. Il famoso aneddoto che non ci si immerge mai nello stsso fiume qui è vero più che mai. Solo la luce nella mia terra è capace di suscitare memoria. Soprattutto quella del pomeriggio che fa rivivere con le sue ombre quelle del passato. Ma è difficile condividere visioni, anche perché ognuno ha le sue.
In questa terra invece l’oblio è più difficile. Qui ci sono monti e cime, qui c’è la sagoma della costa, le rocce e i promontori a cui legare i ricordi. Si può anzi dire che qui i ricordi prendono forma. Qui la memoria è più tenace, qui è il paesaggio che scrive la sua grammatica. C’è anche da prendere in considerazione il peso specifico della materia prima di ogni memoria, che è la storia. Dalle mie parti la storia è passata come un’alluvione. Ha sommerso e distrutto tutto ma quando la terra è riemersa anche della storia che l’aveva afflitta non è rimasto segno. In queste terre invece la storia si è accanita. Come un uragano, si è attorcigliata su se stessa, ha divelto una società tessuta nei secoli. Ha scavato il paesaggio, ha disperso la gente, ne ha portata altra.
La memoria è in fondo lo specchio dell’oblio. La stessa cosa vista dall’altra parte. Ma la memoria ha un valore positivo. Si ammira quancuno che ha una memoria formidabile. Ma un oblìo formidabile non esiste. Dimenticare è una debolezza, una mancanza un errore. Ricordare è sempre un valore. Perché siamo abituati a dare così grande importanza alla memoria? Perché ci illudiamo con la memoria di conquistarci una posticcia immortalità. E di tramandare ai posteri il nostro mondo e la nostra visione di esso, in fin dei conti la nostra identità. Eccoci presi in trappola: identità e memoria. Un binomio micidiale che può sublimarci o dannarci. Non c’è bisogno di scriverla la grammatica della memoria. Tutti la conosciamo, è istintiva, infallibile, ci viene naturale. Ma come tutte le grammatiche è falsa. Crediamo che la grammatica sia lo strumento per dare ordine alla nostra lingua, che la governi in modo razionale e logico. Che sia un po’ il suo manuale di istruzioni. Non è così, la grammatica viene sempre dopo la lingua. La grammatica si muove, è solo una fotografia della lingua in un dato momento della sua continua evoluzione. In fin dei conti, una fotografia del disordine, non dell’ordine. La memoria, come la sua grammatica, è una costruzione. Decidiamo noi cosa ricordare e con questo atto spesso inconsapevole, diciamo chi vogliamo essere ma anche chi vogliamo che gli altri attorno a noi siano, senza neppure chiedere il loro parere. Così ognuno ha la sua grammatica e ognuno ha la sua memoria. Lingue che non si parlano e non si capiscono.
Seguendo questo percorso di pensiero ho allora capito il senso di una grammatica dell’oblio.
Se quella della memoria ci viene spontanea e la conosciamo fin dalla nascita, quella dell’oblio dobbiamo impararla. Ancora di più, dobbiamo comporne le regole, perché la lingua dell’oblio non esiste e può essere solo una lingua artificiale. Proviamo dunque a disegnare la struttura della grammatica dell’oblio. Bisognerà innanzitutto fare un elenco delle cose da dimenticare. Ma questo è un esercizio pericoloso, perché a elencarle le ricorderemmo più fortemente. Per dimenticarle davvero dovremmo andare alla loro radice e reciderle, quindi di fatto seguirle lungo il filo della memoria fino a dove da fatti, eventi, sono diventate memoria. Un lavoro arduo. E anche insidioso. Sarebbe come riesumare una statua antica per distruggerlae continuando a scavare, trovare tutta una città. Paradossalmente, nel tentativo di dimenticare finiremmo per ricordare di più. No, la lingua artificiale dell’oblio non funziona, non è articolabile. Non ha cultura, non c’è dietro un popolo che in essa parla e pensa. Ma credo che fosse Borges che diceva che abbiamo bisogno di oblio per continuare a ricordare. Detta in altre parole, la nostra memoria non può contenere tutto. Bisogna quindi ogni tanto svuotarla, come il sacchetto dell’aspiravolvere, per poterla poi riempire di nuovo con altra, più fresca memoria. Un pensiero suggestivo ma all’apparenza impossibile. La memoria non è materia inerte che si prende e si smaltisce a piacimento. Viene da pensare invece che sia un organismo, e dei più complessi. Sulla pista dell’organismo, mi è venuto in mente che si potrebbe paragonare la memoria a un alveare. I ricordi che ci stanno dentro sono come le api, nascono e muoiono in continuazione. Nuove api nascono, le vecchie muoiono ma è la regina che conserva l’identità dell’alveare. Finché vive, o finché non viene detronizzata da un’altra che si porta via un pezzo dello sciame. Lì l’alveare non è più lo stesso, cambia identità. Allo stesso modo la memoria è fatta di tanta gente che ricorda la stessa cosa. Non importa che sia vera, non c’è verità nella memoria. Ma che sia la stessa e che si tramandi da una generazione all’altra, da uno sciame all’altro. Allora, ritornando alla nostra grammatica dell’oblio, che cosa possiamo concludere?
Forse si può dire che l’esercizio giusto per una grammatica dell’oblio non è dimenticare. Non si può dimenticare. Bisogna invece creare altra memoria che piano, piano diventi per noi più importante, più fondante di quella precedente. Concretamente possiamo pensare a un nuovo alveare dove è andato a vivere il nuovo sciame. Quello vecchio non è morto, è sempre lì accanto. Ma ce n’è un altro, che produce altro miele.
Scegliamo noi cosa ricordare, non dobbiamo nascondercelo. Possiamo dire che è un lavoro inconscio ma fino a un certo punto. Siamo noi che collettivamente designamo quel che vale la pena di ricordare, quello che ci è più funzionale per i nostri valori, per quello che noi crediamo dobbiamo essere per conservare la nostra identità. E allora è qui che bisogna cambiare: il nostro sistema valoriale, la nostra visione di noi e di quello che vogliamo essere. E il nostro modo di vedere gli altri. Questo è un punto molto importante, perché si ricorda e si dimentica sempre insieme. Se a cavallo di una frontiera c’è chi ricorda, l’altro non può dimenticare. Ma questo non vuol dire che si ricordi la stessa cosa. La migliore ricetta per avere la memoria condivisa di cui tanto si parla è costruirla insieme facendo cose insieme, mescolarsi e così crearsi un destino comune.
Io soffro d’insonnia, spesso non riesco a dormire e allora vado dal mio medico e gli chiedo dei sonniferi, dico che non è colpa mia se non riesco a dormire. Il medico non me li vuole prescrivere, dice che invece è proprio colpa mia se non dormo, dice che sono io che non voglio dormire. Forse perché sento che ho ancora cose da fare o perché non sono contento della mia giornata e voglio correggerla prolungandola dentro la notte. Il sonnifero, dice il mio medico, in fin dei conti agirebbe contro la mia vera volontà. Per dormire io devo risolvere il conflitto che ho con me. Lo stesso accade con l’oblio. Non c’è medicina che lo possa suscitare. Non è cancellando la memoria che lo si raggiunge. Ma costruendo nuovi ricordi. Non è vero che non possiamo decidere noi cosa ricordare. Possiamo invece. Facendo cose che non abbiamo mai fatto prima e che danno vita a una memoria diversa, a una nuova memoria, se si vuole, a una memoria migliore. Questa forse è vera la grammatica dell’oblio.