Federica Marzi: Crepe (2016)
Il premio Lapis Histriae 2016
FEDERICA MARZI
CREPE
Era una ragazzina di dodici anni quando anche lei arrivò in quella caserma. Avvenne tutto nel cuore della notte di un freddo gennaio, le pareva di ricordare verso la fine del mese.
Quando scesero dal pullman, i profughi furono circondati da un cordone di militari, giornalisti e personale medico sanitario. Le facce di questi ultimi dicevano di essere state strappate da un sonno poco ristoratore, che pur erano riusciti a concedersi, per assumere ora l’espressione dello sconcerto, dell’emergenza, della compassione, della buona volontà. Le loro mani presero ad aiutare freneticamente a scaricare i pacchi poveramente imballati, le valigie consunte, le borse di finta pelle nelle quali la gente era riuscita a buttare anche un paio di album di fotografie, un servizio di tazzine da caffè, la foto di un padre o una madre abbandonati nella Bosnia orientale oppure già morti, ma anche dei CD e videocassette piratati, walkman, macchine fotografiche. Vi era posto anche per un dizionario di serbo-croato e italiano pagato a peso di marchi tedeschi al mercato nero, contenente parole di una lingua che non sarebbe esistita più. I militari presero goffamente in braccio i bambini che le madri porgevano loro in lacrime, solo per un momento e per uno scatto di flash, come se quel gesto potesse essere benaugurale. Poi le donne se li riprendevano con uno strappo, i bambini, per metterli giù a terra e far loro provare a muovere i primi passi nel nuovo paese. Una sculacciata, se non volevano camminare, e via. Hajde.
«Why are you laughing?», chiese a bruciapelo una giornalista a una ragazza bellissima, stretta a braccetto della sua migliore amica.
E perché non doveva ridere? Che c’era poi da piangere!
Anche se la ragazza non rispose certo così. Spiegò invece qualcosa sulla situazione in Bosnia Erzegovina, in un inglese così perfetto da mettere in difficoltà la giornalista italiana.
Le chiassose famiglie provenienti da Doboj vennero scortate verso l’ingresso per essere affidate a dei volontari che avrebbero servito loro un piatto di pasta appena tiepida, estratto da dei contenitori di polistirolo e incartato nel cellophane, come ne avrebbero visti a iosa nei giorni a seguire, per un tempo che allora non potevano immaginare tanto lungo. Per un tempo che ancora non si poteva pensare.
Azra aveva immaginato l’Italia come il Paese del sole, e invece in quella notte prese a nevicare fitto sopra la sua testa. I fiocchi non attecchivano al suolo ma si scioglievano non appena lo toccavano. Quella era neve annacquata, di serie B, come non ne aveva mai vista. Allora le venne da pensare che forse l’Italia era un paese e basta, non così speciale, non tanto migliore del suo, con la sola differenza che qui non c’era la guerra e lei e i suoi vi avrebbero trovato una forma di protezione umanitaria. Che cosa ciò volesse dire non lo sapeva ancora precisamente, anche se non poteva essere brutto, anzi.
Quando l’opzione della partenza per l’Italia si fece concreta e lei si era confidata con la sua amica Sanela sul pianerottolo comune del sesto piano, le era venuto da metter su persino delle arie anche se fuori sparavano senza sosta i cecchini. Per lei era importante non finire in uno di quei paesi del Nord Europa dove avevano trovato rifugio altri suoi compaesani, visto che manco uno ci si era trovato bene. La gente era troppo chiusa, si diceva, il cibo cattivo, le società rigide anche se efficienti e non facevano mancar niente. E poi faceva freddo, come in Bosnia.
Dopo aver passato il confine austriaco, Azra aveva tirato un sospiro di sollievo. Fino all’ultimo aveva avuto paura di rimanervi bloccata, com’era successo a dei suoi cugini. Ma lei, per sé, voleva qualcosa di diverso. Voleva andare verso il mare. Ma più pigiava la fronte contro il vetro del finestrino nella speranza di scorgerlo, più cresceva in lei la delusione nel vedersi ergere intorno solo montagne.
Al centro d’accoglienza, molti dei vicini di stanza uscirono a vedere chi fossero i nuovi arrivati. Ad Azra parve di sentir imprecare suo padre, un uomo solitamente tranquillo. Era un cittadino, lui, un impiegato della municipalità di Doboj. Non poteva soffrire la gente di campagna e, a quanto pareva, i loro vicini lo erano. Arrivavano da tutte le parti della Bosnia assediata e ce n’erano anche di quelli che suo padre sapeva riconoscere a prima vista. Era con loro che avrebbero dovuto condividere anche il bagno.
Aprendo la porta del gabinetto Azra sentì per la prima volta che cos’era l’odore di piscio. Piscio vecchio, su cui pisciavano tutti. Piscio su piscio, che neanche l’ammoniaca poteva far evaporare. Trattenne il respiro per non svenire e si sbrigò senza toccare niente.
Quando rientrò nella stanza che era stata loro assegnata, suo padre era seduto al tavolo studiando delle carte incomprensibili, sua sorella Majda aveva già occupato il letto di sopra, mentre sua madre le rivolgeva le spalle seduta in fondo, su quel che sarebbe stato dapprima il suo letto, poi il suo divano, il suo angolo privato, il suo esilio, la sua malattia, la sua piccola Italia. Fissava il muro di fronte a sé, senza dire una parola. Su quel muro tinteggiato di bianco sporco si apriva una crepa, un taglio netto e profondo per lungo, verso il quale confluivano, sul lato destro, degli affluenti appena accennati, che si intersecavano fra di loro in alcuni punti formando un trapezio irregolare.
“Quella sembrava la cartina geografica della Bosnia!”, pensò Azra.
Forse lo dovette pensare anche sua madre. Forse era per ciò che non si muoveva di lì, cominciando a invecchiare sotto gli occhi di tutti.
Azra si guardò intorno sconsolata in quella che sarebbe stata la loro nuova casa.
Casa?
Tutto il senso del vivere comune di una famiglia di quattro persone si era ristretto a uno stanzone da caserma, dove si erano cancellati gli spazi funzionali e intimi, mentre gli arredi si erano ridotti a un letto a castello e due singoli, un armadio di metallo, un tavolo e qualche sedia. Fu in quel momento che Azra capì una volta per tutte la differenza fra il verbo vivere e abitare. Esisteva in tutte le lingue, anche nella sua, anche in italiano, e ora sapeva perché.
Azra chiese a suo padre se lì vicino c’era il mare. A suo padre pareva di sì.
Pareva? Non sapeva nemmeno dove erano stati condotti?
Ma se suo padre era sempre sicuro del fatto suo! Che cosa stava succedendo lì dentro? Che cosa gli era preso di colpo a tutti quanti?
Comunque fosse, erano arrivati a destinazione. Il luogo, come scoprì più tardi Azra, si chiamava Caorle. E si trovava effettivamente sul mare.
Azra frequentò un corso di nuoto per tutto l’inverno. Faceva parte del programma ricreativo offerto gratuitamente ai figli dei profughi, che ricevettero in regalo un costume e delle ciabatte. Si mormorava che facessero parte di uno stock difettoso o che si trattasse di un qualche resto di magazzino di cui un’azienda veneta si era voluta sbarazzare. In effetti, dopo solo qualche lezione, ad Azra si scucì l’orlo sulle natiche, anche se per lei fu un vero sollievo liberarsi di quella cosa orrenda che tirava proprio sulle parti intime, riducendole a una sorta di uovo strapazzato. Così si dovette comprare un costume per lei, nuovo fiammante, della misura giusta, del colore che più le piaceva: lo scelse rosso e bianco e quella fu per lei una giornata di festa. Passò tutta la sera a rigirarselo fra le mani, mettendoselo infine sotto il cuscino.
Agli adulti vennero invece proposti dei corsi serali di lingua italiana. Per le donne, private della loro cucina, c’era la possibilità di riunirsi una volta al mese presso un’associazione e cucinare insieme ad altre donne italiane. A tutti loro venne concesso un permesso di soggiorno temporaneo di protezione umanitaria che non consentiva di lavorare. Così anche i genitori di Azra si diedero a fare lavoretti in nero, quando ne trovavano, di quelli più ovvi: edilizia e pulizie. Così, abbandonarono presto anche il corso di lingua italiana, imparando piuttosto qualche espressione dialettale dai datori di lavoro o colleghi, qualora non fossero stranieri anche loro. Quanto bastava, insomma, per comunicare con gli operatori del centro d’accoglienza o nei supermercati. Per il resto c’erano le figlie che andavano a scuola e potevano benissimo tradurre per loro.
Nel restante tempo libero, il padre di Azra seguiva con apprensione i bollettini sulla Bosnia dalla TV satellitare, decifrava carte, formulari, lettere inviate dai compaesani rimasti, leggeva delle riviste, andava a telefonare, si riuniva con alcuni connazionali del centro per discutere della situazione bosniaca e, così facendo, si immergeva quotidianamente in una porzione di guerra, soffrendo spesso per non essere lì. Sua moglie, invece, non riuscì a immergersi in nessuna realtà in particolare. Quando finiva i servizi sbrigati svogliatamente in alcuni alberghi locali, e mentre tutti gli altri stavano dietro alle loro occupazioni, si metteva seduta sul letto, rivolgendo le spalle al resto del mondo, poco importava che questo mondo si chiamasse Italia o Bosnia. Scrutava fisso il muro con le mani in mano. I suoi pensieri seguivano le strambe linee della crepatura che, a vista d’occhio, pareva prendere sempre nuove, sottili e intricate diramazioni. I suoi pensieri seguivano indecifrabili intersezioni, vagabondavano seguendo il lento e inesorabile movimento di linee reali e immaginarie. Nessuno poteva entrarci, in questo privato arabesco, né sapere se alla fine del giro si ritornava al punto di partenza oppure si arrivava da qualche parte. Anche perché a nulla servivano i tentativi di smuoverla.
«Mamma, guarda che sono già tutti giù a mensa», le urlava Azra quando tornava da scuola con una fame da lupo, spalancando la porta e buttando con uno strattone lo zaino nell’ingresso.
Vengo, vengo, pareva di sentir dire una voce flebile e strascicata.
Anche se poi bisognava ripetere ancora: «Mamma! Mamma!».
A volte Majda le sedeva a fianco o le buttava la testa in grembo, rimanendo anche per un intero pomeriggio a farsi accarezzare i lunghi capelli, a perdersi in un gioco di mani che si rincorrevano al ritmo di canzoni infantili o vecchie storie bosniache, a intrecciare fili di lana. Ma Azra non aveva intenzione di starci a quel gioco folle. Alla sua età aveva la vita da vivere, il tempo correva troppo e lei doveva essere più veloce di lui.
Così, a poco a poco, la sorella minore divenne la preferita della mamma. Fra le due si instaurò un’intesa speciale, fatta di un’intimità da cui l’altra veniva automaticamente esclusa. Majda sapeva trovare il giusto canale per comunicare con la madre, mentre per Azra era tutta fatica sprecata cercare di attirare l’attenzione sulla concretezza dei fatti quotidiani, gli unici a dare il vero movimento alla vita, intercalato ogni tanto da qualche strattone e sussulto imprevisti per i quali non c’era spesso rimedio.
Mamma, guarda che bel voto ho preso.
Mamma, domani c’è sciopero, se vuoi riesco a darti una mano in albergo.
Mamma, mi hanno invitata a un compleanno sabato e, dio mio, non ho niente da mettermi!
Mamma, guarda, c’è un paio di jeans in saldo nel negozio qui di fronte. Li ho già provati, sono perfetti, dai, non ne posso più di quelli vecchi! Sono tutti lisi proprio sul didietro, mi vergogno ad andare in giro così. E poi non è vero che ti faccio spendere troppi soldi per i miei vestiti. Mamma! Mamma!
Sua madre reagiva appena, come se le parlassero da un altro pianeta, tirando fuori qualche banconota di vecchie lire per chiudere presto la discussione. Ogni sua azione era circospetta. Camminava sulla superficie delle cose, come per non disturbare o, meglio, per non venir disturbata.
Azra rinunciò a cambiare lo stato dei fatti e il carattere delle persone il giorno in cui si ritrovò a urlare il solito «Mamma! Mamma!» dal bagno, senza che però nessuno accorresse ad ammirare le macchie di sangue sulle mutandine, che certo non poteva rivelare ai quattro venti mettendone a parte le centinaia di persone che vivevano nella caserma. Quel giorno, nessuno l’aiutò ad affrontare la novità in una sorta di passaggio di consegne al femminile, con qualche rito iniziatico che potesse essere di buon augurio.
Guardandosi allo specchio Azra notò compiaciuta che il seno era cresciuto ancora un po’, arrotondandosi perfino. Provò un’ultima volta a chiamare chi, da tempo, rispondeva solo distrattamente alle sue richieste. Poi fece spallucce, pensando che avrebbe fatto ancora una volta da sé, sin troppo consapevole di essere una ragazza con la testa sulle spalle su cui si poteva contare. Andò allora da suo padre. Gli chiese con un tono sbrigativo, che non ammetteva interferenze né repliche, dei soldi per comprarsi gli assorbenti.
«Ha chiamato lo zio da Sarajevo, sono tutti vivi, stanno bene, la tregua sembra reggere», fu il modo in cui suo padre commentò il fatto che fosse diventata ormai donna. Per il resto, la questione si chiuse lì, senza gioia né rammarico, da ambo le parti.
Azra pensò che a volte è così che devono andare le cose. E basta. Poi non pensò più a niente. Solo a quel suo innato senso di responsabilità che a volte interferiva con l’istinto famelico di divorare la vita come veniva. In quei momenti le si offuscava appena lo sguardo, cosa che ai suoi coetanei non succedeva, o per lo meno non così, e che davvero la mandava su tutte le furie. Da quando era arrivata profuga in Italia aveva preso a odiare ferocemente qualsiasi forma di sdolcinata malinconia.
A giugno Azra venne promossa in terza media. I suoi compagni parlavano di vacanze e divertimenti in posti lontani da Caorle e solo di straforo dei compiti assegnati per l’estate. Lei avrebbe aiutato la mamma nei lavori più pesanti di pulizia negli alberghi, anche se non lo andava certo a raccontare a chicchessia, e c’avrebbe dato dentro con i compiti per migliorare in italiano, cosa da tenere ancora più segreta. Nella sua famiglia dovevano darsi tutti da fare durante la stagione estiva, quando la località turistica si rianimava e di lavoro ce n’era quanto si voleva, in modo da cominciare a mettere via i soldi per il dopo. Perché dopo la guerra si sarebbe dovuto provvedere a sistemarsi in una nuova casa, benché nessuno in famiglia specificasse mai se questa sarebbe stata in Italia o in Bosnia.
Tutto il resto del tempo, però, sarebbe stato per Azra e nessuno gliel’avrebbe potuto togliere. E quel tempo sarebbe stato al mare. Sotto un ombrellone che già s’era prenotata, risparmiando anche lei soldo su soldo su quel che non consegnava a sua madre, nonostante gli accordi. Sarebbe stato leggere libri. Anche in inglese e in tedesco, per rilassarsi un po’. E ascoltare musica o passeggiare sul lungomare. Abbronzarsi. Sarebbe stato comprarsi un bikini a rate, con i soldi prestati da un’amica, e sostituire prima possibile il costume rosso e bianco da nuoto che aveva fatto ridere qualche compagna di classe. Sarebbe stato crogiolarsi al sole, fare delle lunghe nuotate assaggiando a piccoli sorsi l’acqua di mare per risputarla poi fuori a fiotti, fino a ubriacarsene, come aveva sempre immaginato. Quell’estate sarebbe stata tutta sua. Era la sua prima vera estate. E lei si sentiva libera come non lo era mai stata.
Incontrò un ragazzo della sua scuola quell’estate. Nicola non godeva di buona fama, dicevano che fosse un bullo, un piantagrane, uno che era stato anche sospeso e poi infine bocciato. Sulle prime ci stette attenta. Poi notò che le piaceva sempre di più parlare con lui, anche se era un parlare di tutto e di niente, com’era tipico dei ragazzi come lui, sempre con il broncio, sempre a dover dimostrare di essere superiori e a nascondere le proprie stonature.
In agosto, quando il sole al tramonto sembrava precipitare e affogare nel mare affrettando la fine dell’estate, quando Nicola smetteva il turno di aiuto bagnino scendendo dalla sdraio su cui stava tutto il giorno ad abbrustolirsi e a mettersi in mostra, si incontravano davanti alla diga. Nicola fumava e le faceva fare qualche tiro. Azra non ci vedeva niente di male, era sicura che le sue coetanee bosniache sparse in mezza Europa fumavano già tutte e ancora di più dovevano farlo quelle rimaste indietro. Era arrivato anche per lei il momento di mettersi alla pari con le altre.
Ci fu un pomeriggio in cui Nicola sembrava particolarmente assorto nei suoi pensieri di ragazzo seduto troppo vicino a una ragazza sul bagnasciuga, con i fianchi che quasi si sfioravano facendo venire ad Azra la pelle d’oca. Sembrava perfetto, come se tutto stesse finalmente per accadere, perché Nicola le chiedesse finalmente se voleva mettersi insieme a lui. Prima, però, bisognava togliersi un ultimo sassolino dalla scarpa.
«Che, sei mussulmana?», se ne uscì Nicola buttando la cicca nel mare, con un tono di chi è arrivato al dunque.
«Sì, ma che t’importa?», gli rispose Azra scavando nella sabbia fino a torcersi il polso, mentre dentro si sentiva morire.
«No, è che non lo sapevo. Me l’ha detto un mio cugino grande che è stato in Bosnia da militare, che mi ha spiegato della pulizia etnica, sì, non so, così ha detto lui…», disse, reprimendo a stento un’espressione che oscillava fra la compassione e la repulsione.
«E allora? Non sapevi che nel mio paese c’era una guerra?»
«È che io non sapevo di questa storia dei serbi, croati e mussulmani, manco sapevo che c’erano i mussulmani da voi!», disse Nicola sconcertato. La voce gli tremava mentre, tutto paonazzo, cercava di arrampicarsi sugli specchi senza trovare il coraggio di dire apertamente che fra loro era tutto finito, come gli aveva intimato quel suo cugino grande, a causa di un pregiudizio sulle ragazze mussulmane che però, ora, non riusciva più a spiegarsi.
«Ma se non lo sapevo nemmeno io di esserlo finché non è iniziata la guerra! Guarda che non sono come credi, brutto stronzo razzista!», urlò Azra gettandogli della sabbia addosso e correndo via.
Senza voltarsi neanche una volta, pregò in cuor suo che Nicola la seguisse, l’afferrasse per un braccio, la tenesse stretta. Ma nulla di tutto ciò accadde.
Che gliene importava a Nicola che lei fosse mussulmana? Tutto, gliene importava.
Perché, da allora, Nicola non la cercò più. Si fece perfino spostare di qualche postazione di vedetta. Se si incrociavano, le mugugnava a stento un «ciao, come stai?» senza neanche aspettare la risposta. Mai lui le sembrò così ottuso. Eppure ciò non bastò a placare il suo mal d’amore.
Arrivarono le prime piogge settembrine. Azra aveva già finito i compiti per le vacanze. Non aveva più nulla da fare, tranne aspettare che succedesse qualcosa. E, per la prima volta, le sembrava di non avere più nulla da aspettare, niente da sperare. Perché essere stata lasciata da Nicola era peggio che essere fuggita da una guerra, vivere in un campo profughi, sentirsi analfabeta nella nuova lingua, vedere ogni giorno i suoi genitori andare verso un’incomprensibile deriva. Non s’era mai sentita così.
Avrebbe voluto urlare nello stanzone perché tutti sentissero la bufera che aveva dentro e i loro stupidi gesti quotidiani e ripetitivi ne venissero travolti. Perché tutti potessero darsi una scrollata e uscire di là per fare qualcosa di vero. Ma la vista di quella madre che, come sempre, fissava impotente il muro accarezzando i capelli di Majda le tappò la bocca per l’ennesima volta, e la tormenta si incanalò verso un angolo profondo di sé dove continuò a infuriare in silenzio.
Quando, un anno dopo, alla madre di Azra vennero i denti neri, bisognò portarla d’urgenza all’ospedale. Erano stati appena siglati gli accordi di Dayton per una pace duratura in Bosnia Erzegovina. Era novembre. Pioveva a dirotto, anche se non faceva freddo. Ma alla madre di Azra non importava più, della pace, della guerra e della pioggia, o, forse, non gliene importava fino in fondo, non come aveva immaginato e implorato e sperato e pregato per quasi due anni passati a girovagare in un intrico di sentieri conosciuti a lei sola. Era in uno stato confusionale e, dal precipizio del suo esaurimento nervoso, non poteva rendersi ancora conto che forse la sua pena poteva ora finire.
Anche perché iniziò quella furiosa del padre, che Azra vide per la prima volta perdere il controllo e sbattere i pungi contro il muro davanti a due infermieri basiti. Azra lo sentì imprecare nella sua lingua come non aveva mai fatto, contro tutte le madri e i diavoli dell’inferno, maledicendo l’Italia perché li aveva tenuti in sospeso per tutto quel tempo, incolpando se stesso per non aver fatto in realtà niente per imparare a vivere in Italia, giurando che sarebbero rientrati prima possibile. In Bosnia, certo, non importava dove, sicuramente non più nella città e nella casa dalle quali erano partiti, e comunque a prescindere da quel che era stato fatto di quel paese e di quel che ne sarebbe diventato: l’importante era andare via presto da Caorle, dal campo profughi, e ricominciare a vivere una vita normale. Suo padre parlò, disse molti improperi, si sfogò immaginando di aver trovato una buona soluzione per tutti. Ma non chiese nulla ad Azra: il suo parere di quattordicenne non contava.
Di ritorno dall’ospedale, Azra farfugliò una scusa qualsiasi per allontanarsi un’oretta dalla caserma. Suo padre, al solito, manco la stette a sentire. Azra poté allora dirigersi indisturbata nella sala giochi dove sapeva di trovare Nicola. Era trascorso abbastanza tempo dall’estate passata insieme, avevano ripreso a fumare una sigaretta ogni tanto o a sfidarsi a qualche gioco alle macchinette. Entrambi avevano avuto tempo per accantonare la faccenda della religione di Azra, ora avevano altro per la testa. Azra stava raccogliendo un successo scolastico dopo l’altro. Nicola si barcamenava fra un lavoretto e l’altro, senza aver fatto la fine che tutti gli avevano predetto: non era diventato un teppista. Semplicemente si arrangiava come molti, senza grandi traguardi da raggiungere. Lui e Azra avevano recuperato una strana intimità, effetto di un amore platonico estivo finito prima di incominciare. Ma effetto anche di una viscerale diversità.
Tuttavia Azra decise che era arrivato il momento di rompere quel muro fra loro e perdere la verginità. Pensò che Nicola andava bene per realizzare questo suo proposito. Non ne era più innamorata. Le piaceva soltanto. E poi forse se lo dovevano a vicenda. O magari no. Forse anche questa era solo un’ennesima stupidaggine. Semplicemente non era più disposta ad aspettare chissà quanto per imparare a fare l’amore, dato che ora le si prospettava di vivere chissà per quanti anni nell’incertezza, in Bosnia, in Italia, sempre mantenendo la testa sulle spalle, correndo dietro ai suoi genitori senza che nessuno pensasse a un vero progetto per lei.
Quando tornò in caserma aveva le lacrime agli occhi per la felicità e nessuno con cui potersi confidare. Si sedette al posto di sua madre davanti al ghiribizzo di crepe nelle quali era stata pigiata e soffocata una vita. Osservandole a lungo, Azra si accorse con sua meraviglia di quanto potessero essere confortanti, di come avvolgessero i pensieri in un caldo abbraccio. Concentrandosi sul taglio verticale lungo le sembrava di poter scendere nelle proprie profondità, nelle parti più intime e vere di se stessa. Quella linea pareva ora pulsare, restituendole il senso del piacere assoluto che solo poco prima aveva provato, per essere sostituito più tardi da un fitto dolore fra le gambe che mai aveva accolto con così tanta soddisfazione.
Vent’anni più tardi, Azra camminava avanti e indietro sul marciapiede davanti a quella stessa caserma dove una volta era arrivata con la sua famiglia in una fredda notte di gennaio. Ora indossava un paio di pantaloni blu che le arrivavano appena sopra le caviglie e lasciavano scoperto il cinturino tempestato di brillantini che le allacciava elegantemente il piede affusolato. L’interprete tardava, ma era una bella giornata di sole, una giornata benaugurale per arrivare in un posto così, e non era spiacevole starsene un po’ fuori a rimuginare fra vecchi ricordi. Era nervosa come se fosse stata lei a ricevere una visita e non il contrario.
Dopo i soliti passaggi di rito in portineria per l’esibizione dei documenti, si diresse a passo sicuro nella stanza dove aveva vissuto con la sua famiglia. Non c’era più la porta, ma riconobbe immediatamente il muro in fondo che era stato imbiancato alla buona. C’era sempre un letto lì vicino, l’ultimo di una fila di letti singoli e a castello destinati ai nuovi rifugiati siriani. Sul letto che un tempo fu di sua madre stava seduto un giovane leggermente curvato in avanti, con la testa rivolta alla parete. Azra gli sedette accanto, facendo cenno all’interprete di aspettare un attimo. Il giovane richiedente asilo era così concentrato su un giochino scaricato dallo smartphone che a stento si accorse della sua presenza.
Azra si guardò intorno. Lì dentro era tutto un miscuglio di miseria e nuove tecnologie, piedi e vestiti maleodoranti e telefonini di ultima generazione. C’era una tale confusione che la sua presenza passò quasi inosservata. I nuovi richiedenti asilo erano abituati alle visite di giornalisti e operatori umanitari e al fatto che il loro intervento non contribuisse a cambiare molto le cose, né a rendere più sicura la loro permanenza in Italia. Sporgendosi un po’ in avanti riconobbe alcuni filamenti del vecchio intarsio di crepe che ancora apparivano sotto l’intonaco. Se le ricordava alla perfezione quelle linee astratte che si erano stampate per sempre nella sua testa. Alcune crepe si erano assottigliate, allungate, forse a testimoniare nuove sfumature di storie che pure andavano avanti sempre uguali da almeno vent’anni.
Decise che sarebbe partita da lì, per le sue interviste, da quell’uomo al quale rivolse un saluto cordiale. I suoi occhi erano belli e profondi, ma lo sguardo era sperduto. Mai si era sentita così vicina a un essere umano tanto sconosciuto e misero. Lui, invece, non poteva certo sapere, non poteva neanche lontanamente immaginare, e ad ogni modo non gli sarebbe stato di nessuna consolazione scoprire che anche lei, oggi una donna in carriera, elegantemente vestita, truccata di tutto punto, era stata una volta seduta come lui in quello stesso posto e che da lì era iniziato tutto quanto, perfino quel che per lei, ancora oggi, contava di più.