Fuad Hrustić: Giovani salmoni (2020)
Premio Lapis Histriae 2020
Fuad Hrustić
GIOVANI SALMONI
Dietrich e Omar venivano da noi dopo la scuola. In cucina i ragazzi mangiavano panini con tonno e insalata verde e poi se ne andavano nella camera di Omar. Giocavano per ore al computer e bevevano bibite frizzanti dalla grande bottiglia di plastica, gridando e ridendo ad alta voce. Entrambi amavano i videogiochi di guerra: dalla camera rimbombavano armi, tuonavano raffiche di fucili automatici ed esplosioni di bombe dai cannoni, come tanto tempo fa, durante l'assedio a Sarajevo. I genitori di Dietrich non avevano niente da ridire sulla nostra provenienza e non gli impedivano di frequentare Omar. Lavoravano fino a sera ed erano felici che il loro figlio non passasse pomeriggi interi da solo a casa. Io quell'inverno ero rimasta senza lavoro e potevo prendermi cura dei ragazzi. Faceva molto freddo, anche se raramente nevicava. Obbligavo loro a fare i compiti di matematica, a leggere la letteratura tedesca obbligatoria. Mettevo davanti a loro enciclopedie, stimolandoli a studiare piante e animali.
Selma si trasferì da me con Omar a settembre, dopo il divorzio. Mi disse allora di non chiederle nulla e che non sarebbe ritornata più dal marito. Iscrisse Omar nella scuola più vicina, trovò un nuovo impiego in un'altra città, comprò un'automobile e ogni giorno faceva un centinaio di chilometri in un senso per andare a lavorare. Nonostante tutte le disgrazie, la cosa più importante per lei era non dover prendersi cura di Omar. Lui era felice con me, nella nuova scuola, con i nuovi amici. Spesso si confidava con me, parlava di suo padre senza lacrime. Mio genero, Munib, i cui genitori si erano trasferiti in questo paese negli anni ottanta dello scorso secolo, picchiava Selma. Nonostante fosse nato in Germania, pretendeva che lei lasciasse il suo lavoro, che si chiudesse in casa, che non uscisse mai senza di lui, che si coprisse, che portasse il velo. Minacciava di ucciderla, girava per la casa con un grande coltello. Selma non si sottometteva al marito, l'avevamo educata a essere libera, a non sopportare la violenza, a seguire i propri sogni.
Abitiamo in un appartamento che guarda verso un vasto parco comunale ben curato. Le stradine pedonali sono pavimentate con blocchi di cemento quadrati, accanto panchine in legno e cestini per i rifiuti. I pini, gli abeti e i platani sono da Natale decorati con lampadine luccicanti. Nei cespugli perfettamente potati si nascondono gli uccellini di città. Niente sporcizia, rifiuti, carta, né bottiglie di plastica. Ciò nonostante, i ragazzi non avevano mai voglia di uscire fuori e giocare nel parco. Non si staccavano dal computer e dai giochi di guerra. Questo appartamento è di mia proprietà, mi ci trasferì dieci anni fa, dopo la morte di Ibrahim. Lui perse la vita in cantiere, cadendo dall'impalcatura di un edificio abitativo. Quando da Sarajevo venimmo in Germania, lui faceva l'imbianchino e guadagnava bene. In realtà, lui non era imbianchino, per tutta la vita aveva lavorato come giornalista, scriveva per le riviste per bambini: articoli, storie, fiabe, poesie. Investii l'intera somma dell'assicurazione sanitaria tedesca per l'acquisto di questo appartamento. La nostra vecchia casa a Sarajevo fu distrutta durante l'assedio e non l'ho mai ristrutturata.
Omar e Dietrich si separano tardi, quando cala la notte e il freddo comincia a stringere, quando si accendono le luci della città. Si salutano a lungo sulla porta d'entrata, chiacchierando dei nuovi videogiochi e pianificando l'indomani. Dopodiché Omar corre alla finestra e segue la minuscola sagoma dell'amico, il quale va di fretta tra i platani avvolti da lampadine luccicanti e gli alti, scuri abeti ricoperti dalla neve non ancora sciolta. Lui se ne sta immobile alla finestra fino a quando non vede arrivare sua madre; aspetta che lei parcheggi la macchina, chiuda i fari e spenga il motore. Selma è molto stanca dopo il lavoro impegnativo. Ci bacia, chiede come abbiamo trascorso la giornata, si fa la doccia e si cambia i vestiti. Ceniamo insieme. Il suo telefono non smette di squillare. La chiamano le amiche. Da poco ha una relazione con un altro uomo. Lui e tedesco. I nostri non la interessano più.
Prima di addormentarsi, quando è già stanco e malinconico, Omar desidera che gli racconti qualcosa del periodo in cui vivevamo a Sarajevo, quando sua madre aveva gli stessi anni di lui ora. Gli parlo dei suoi capricci, della vita sotto le bombe, dell'assedio, della guerra, dei giorni da rifugiati. Gli leggo dal computer le storie che suo nonno scrisse quando arrivammo qua. Non portammo niente con sé, i testi vecchi di Ibrahim furono distrutti, bruciarono nella biblioteca bombardata dai carri armati. Non appena ci sistemammo, lui continuò a scrivere per un forte bisogno interiore; scrivendo fuggiva dalla nostalgia di casa e della vita passata. Qui era niente e nessuno, un semplice emigrato a carico dello stato. Trovò impiego come imbianchino; a mani nude guadagnava per il cibo, per l'affitto, per l'istruzione della nostra Selma. Qui non poteva fare il giornalista e scrivere per i bambini. Sapeva che nessuno avrebbe voluto pubblicare le sue storie e fiabe. Scriveva per sé, dopo il duro lavoro, la sera, quando si spegnevano le luci e in casa regnava il silenzio. Seduto al computer fino a notte fonda, richiamava alla mente immagini della città nativa, delle sue vie, del fiume inquieto, del cielo azzurro, delle montagne verdi. Con lo scrivere curava la nostalgia che lo soffocava come una pesante malattia. Dovette scappare dalla patria, e nel paese in cui trovò rifugio, non trovò però la pace interiore, la felicità. Soffriva infinitamente qui. Scriveva per non impazzire.
Omar parla appena la nostra lingua, si può dire che non la capisca affatto. Bisogna che io traduca in tedesco ogni storia del suo nonno. In queste storie principi vivono in alti castelli e sposano graziose principesse, draghi a tre teste sputano fuoco incendiando villaggi e città, audaci avventurieri cercano il tesoro nelle caverne oscure, coraggiosi cavalieri vanno in battaglia su cavalli veloci, streghe malvagie volano sulle scope e gettano spaventosi incantesimi su persone e animali. Nella storia più bella il figlio minore del re riesce a catturare un cavallo alato che una notte scende dai prati celestiali per bere acqua dal limpido fiume. Mette la sella al cavallo alato e diventa l'eroe che rende giustizia per le strade e le vie della propria patria, che salva le principesse da maghi maligni in torri oscure, che protegge il misero popolo da aggressori crudeli. Il più delle volte gli leggo la storia di un bambino che all'improvviso si trova nel vortice della guerra. Tanto tempo fa, in una terra lontana, viveva un bambino che non usciva mai di casa, non si staccava dai suoi libri e ascoltava soltanto le storie del nonno, del padre e della madre. Il bambino non viveva in un mondo reale, per lui la fantasia era più forte della realtà, come se camminasse sulle nuvole. Gli anni passavano e il ragazzo non vedeva alcun cambiamento intorno a sé. Soprappensiero e sconcertato, si trovò nel vortice di una guerra sanguinosa. Nel suo paese le città bruciavano e la gente moriva.
Il ragazzo un giorno uscì di casa e si mise in viaggio. L'unico mondo che conosceva era quello delle storie. Lungo il cammino incontrò un uomo armato. Il ragazzo era sorpreso, non sapeva nemmeno di quale esercito facesse parte. Il militare puntò il fucile verso di lui e disse:
“Non puoi proseguire! Ti ucciderò.”
“E perché?” chiese il ragazzo “non ho fatto niente a nessuno. Non ho pestato nemmeno una formica. Vivo in una casa deserta, lontano dalla gente, con il nonno che mi vuole bene, il papà che mi vuole bene e la mamma che mi vuole bene più dei suoi stessi occhi. Non odio nessun’essere di questo mondo. Non esiste una ragione valida per cui mi dovresti togliere la vita. Sono partito alla ricerca di nuove storie di cavallieri coraggiosi e dei loro atti eroici.”
Il militare replicò: “Se uccido i tuoi genitori, si spegnerà il tuo amore per le persone e continuerai a vivere provando odio. Se incendio la tua casa, diventerò padrone di tutta questa terra sulla quale un giorno te ne costruirai una nuova. Se uccido te, non ci saranno le tue storie né la fede ribelle nella libertà che solo grazie a esse resiste nella memoria come un fuoco acceso. Non esiste una ragione per cui tu debba vivere se voglio dominare sul tuo popolo a lungo e in sicurezza!”
Il militare era deciso a ostacolare il cammino del ragazzo. Con la canna del fucile puntata, vicino alla morte, il ragazzo aspettava invano il cavallo alato e l’audace cavaliere delle sue storie.
Finito di leggere, stiamo a lungo in silenzio. Il mondo immaginario di Ibrahim ci porta lontano dalla stanza. Non sono mai riuscita a capire dove viaggiassero i pensieri di Omar. Potevo solo intuirlo dalle sue domande.
“Uccidevano anche i bambini durante la guerra?” mi chiese una volta mentre aspettavamo Selma.
“Sì, ogni giorno” risposi. Dovevo essere sincera, nonostante la sua sensibilità. Anche se spesso mi trattenevo, lo proteggevo da descrizioni dettagliate sulle atrocità di guerra. Lo proteggevo come i miei stessi occhi. Lui per me era un enigma, che tentavo costantemente di decifrare. Cercavo di offrirgli tenerezza, attenzione, amore, tutto ciò che i suoi genitori non avevano fatto. Non avevano tempo per lui, per la sua crescita, il suo corpo fragile e la sua anima vulnerabile, per le sue innumerevoli domande su sé stesso e sulla vita. Probabilmente perché neanche loro erano maturi, perché entrambi erano completamente presi dalla frenesia e dal chiasso di questo mondo a colori.
Verso la fine di gennaio, nel palazzo accanto al nostro si trasferirono degli emigranti dalla Siria e dal Pakistan. C’era una decina di famiglie: uomini, donne e bambini piccoli. Suscitavano perplessità e paura in tutti gli inquilini del nostro palazzo. Stavano sempre nel parco, parlavano ad alta voce, trascinavano sacchetti con cibo e bevande, buttavano i rifiuti per le stradine e il giardino. Verso sera accendevano il fuoco in cortile e cantavano qualcosa di malinconico. Dietrich e Omar in quei giorni erano visibilmente turbati, dovevo accompagnarli a scuola e a casa. Avevano paura degli scuri uomini e donne e dei loro figli disordinati. Erano convinti che quella gente avrebbe fatto loro del male. Ma al tempo stesso erano molto curiosi, si soffermavano a osservare i bambini cercando di capire il senso dei loro giochi. A loro dava fastidio il fatto che quei ragazzini dai capelli ricci e neri giocassero nel loro parco, che strillassero e saltassero dietro il pallone tutto il giorno. Non avevano mai cercato di fare conoscenza, non mostravano nessun interesse. Erano contenti quando arrivarono gli assistenti sociali e portarono gli emigranti in un altro posto.
“Menomale che se ne sono andati” disse Omar dopo la loro partenza.
“Io li odiavo” disse Dietrich.
“Anch’io” disse Omar.
“Perché?” chiesi.
“Sono sporchi, brutti e puzzano” disse Omar.
“Anche noi eravamo così quando nel novantadue arrivammo da Sarajevo. Io, tuo nonno e tua madre avevamo addosso vestiti puzzolenti e stracciati” dissi.
“Voi non assomigliavate a loro!” gridò Omar evidentemente turbato.
“Eravamo sporchi e affamati” dissi, dovevo dirgli la verità nonostante le conseguenze.
“No, mia madre non era sporca!” urlò più forte. Il suo viso era rosso dalla rabbia. Le lacrime correvano giù.
“Tutti coloro che scappano dalla guerra sono uguali; affamati, disordinati e sporchi” dissi.
“No, mia madre era sempre bella” disse interrompendo il discorso. Prese Dietrich per mano e lo tirò in camera sua.
Qualche giorno dopo accompagnavo i ragazzi da scuola. Nella via principale ci imbattemmo nelle dimostrazioni del partito radicale di destra. Ci riparammo in un vicolo stretto tra due negozi aspettando che i manifestanti passassero. Centinaia di persone marciavano in mezzo alla larga via con in mano striscioni sui quali c’era scritto “Stranieri fuori”. Urlavano a squarciagola, battevano tamburi, fischiavano, portavano fiaccole accese, mettevano della musica musica, cantavano. All’incrocio furono fermati dai poliziotti. Dalla folla iniziarono a volare verso di loro bottiglie, sassi, oggetti di legno. Non lontano da noi un uomo dalla pelle scura si versò addosso della benzina e corse verso la folla con un accendino in mano. I poliziotti lo fermarono in tempo impedendo che si desse fuoco. Dalla folla si udì un netto saluto nazista. Molti alzarono esaltati la mano destra in aria.
I ragazzi guardavano senza parole la confusione in strada. Erano pallidi dalla paura. Si stringevano forte a me come due uccellini spennacchiati. Abbracciavo loro per proteggerli e li coprivo con le mani. Li accarezzavo sul collo, sulle spalle, sul petto. Avevano il fiato corto, i loro cuoricini battevano all’impazzata, mi guardavano straniti con gli occhi spalancati. “Non abbiate paura ragazzi” li consolavo di continuo. La polizia arrivò con i cannoni ad acqua e cacciò via la folla. Solo allora potevamo avviarci verso casa. Li tenevo stretti per mano seguendo di fretta una coppia di anziani. Potevamo udire il loro discorso. L’uomo spiegava alla moglie che le dimostrazioni erano già iniziate la sera prima, dopo l’omicidio di un tedesco all’entrata della più grande discoteca della città. L’accusato era un giovane dalla Siria, si chiamava Omar. In quell’istante Omar mi guardò. Tristezza e delusione coprirono come un’ombra scura il suo pallido volto infantile. Sentii la sua mano stringere più forte. Abbassò la testa. Era come se si vergognasse terribilmente di qualcosa. Stava in silenzio mentre Dietrich chiacchierava ininterrottamente. Davanti al palazzo lo salutò silenziosamente, non lo invitò a giocare. Per tutto il pomeriggio non uscì dalla sua camera.
Quella sera eravamo da soli a casa. Selma restò a festeggiare il compleanno di un suo collega di lavoro. Omar andò a letto senza salutare. Pensai che con lui fosse tutto in ordine, che avesse dimenticato i manifestanti. Mi svegliò dopo la mezzanotte. Era visibilmente turbato. Il suo pigiama era bagnato dal sudore. Sollevai la trapunta e lui si sdraiò vicino a me. Tremava tutto. Piangeva.
“Che cos’è successo?” chiesi.
“Quel giovane dalla Siria, l’assassino” disse tra le lacrime, “si chiama come me.”
“Forse non è lui l’assassino. Bisogna innanzitutto svolgere una vera e propria indagine e eseguire una giusta sentenza” dissi.
“Non voglio più essere chiamato Omar” disse.
“I nomi non hanno importanza” lo consolavo.
“Sì che sono importanti. Dietrich non vorrà più giocare con me.”
“Certo che vorrà” dissi convinta.
“No. Perché non ho un nome tedesco. Mi chiamo come quello sporco emigrato.”
“Hai un bel nome.”
“Non lo voglio più” disse tremando sempre più forte. Iniziai a preoccuparmi per la sua salute. Pensai che avrebbe potuto ammalarsi.
“Calmati. Andrà tutto bene. Dietrich verrà domani di nuovo. Smetti di piangere” lo pregavo.
“Pensi che quella gente mi caccerà dalla Germania?”
“No, per niente” baciavo le sue mani, le guance, gli asciugavo le lacrime.
“Perché uno dalla Siria si chiama come me? La Germania è la mia patria? Dov’è la mia patria?”
“Sono sicura che troverai la tua patria. Vuoi che ti faccia un tè o che ti legga le storie del nonno?” chiesi. Cercavo disperatamente un modo per calmarlo.
“Sì” disse, non smetteva di singhiozzare.
“Quando diventi grande andremo insieme nel paese delle storie del nonno. Sarà quella la tua patria. Ci stai?” chiesi.
“Sì” disse e si asciugò le lacrime.
Poi accesi la televisione perché non riuscivamo più a dormire. Guardavamo un documentario sui salmoni. Seguivamo le femmine che a febbraio depongono le uova sul fondo ghiaioso del limpido fiume alpino. I maschi poi vengono a fecondarle. Dopodiché, ad aprile, quando l’acqua diventa più calda, dalle uova escono pesciolini dall’aspetto insolito. Sulla pancia hanno un grande sacchetto giallo. I pesciolini all’inizio si nascondono tra la ghiaia e si cibano del tuorlo che portano, mentre più tardi, dopo essersi liberati del sacchetto, cercano insetti e plancton. Contemporaneamente però, sono prede di predatori, martin pescatori, aironi, lontre. A giugno i giovani pesci si raggruppano in banchi e si muovono lungo la corrente, verso la foce nel mare. Durante questo lungo viaggio devono superare numerosi ostacoli: gettarsi lungo le cascate, scavalcare dighe costruite dall’uomo, sfuggire a pesci più grossi, uccelli e pescatori astuti. Devono passare per molti paesi che il fiume attraversa. Durante il tragitto subiscono una trasformazione, crescono, perdono le macchie scure e ricevono uno splendore argenteo. Diventano dei pesci robusti e veloci. I cambiamenti più complessi avvengono alle loro branchie, perché devono adattarsi alla vita nell’acqua salata. Alla fine del viaggio, alla foce, i giovani salmoni sono completamente trasformati. Sono pronti per la vita in mare. Ora hanno davanti a sé vasti orizzonti d’acqua e innumerevoli possibilità di vita e di trovare cibo. Possono immergersi liberi nelle immense profondità dell’oceano blu e abbandonarsi alle correnti marine. Possono nuotare lontano, ai confini estremi del Nord della Terra, alla fine del mondo. Niente più li trattiene. L’istinto che li spinge al viaggio è più forte di tutti gli ostacoli. Nell’oceano i giovani salmoni attraversano senza errore migliaia di chilometri, pur non essendoci mai stati prima. Tutto ciò lascia meravigliati gli scienziati, il loro istinto per il viaggio non è stato studiato fino in fondo. Sono forse guidati dal campo geomagnetico, dalle correnti oceaniche, dalla Luna o persino dalle stelle che brillano nel cielo? Chi può saperlo?
Finito il documentario, Omar si calmò del tutto. Come se il narratore avesse per tutto il tempo parlato di lui, della sua vita, come se gli avesse mandato messaggi segreti. Forse non era in grado di cogliere fino in fondo il loro senso, forse non sapeva arrivare al loro significato nascosto. Ma che la sua delicata anima bambina lo avesse intuito, di questo ne ero certa. Lo capivo dai suoi occhi spalancati, dalla calda fiducia che emanavano. Misi la mano sulla sua fronte e lui chiuse gli occhi. Si addormentò, il suo respiro era tranquillo e profondo.
traduzione in italiano Sara Blažević