Monika Herceg: Tic-tac (2019.)
Monika Herceg
TIC-TAC
Alla domanda quanto dobbiamo ancora camminare, sei settimane fa ho risposto a mia figlia ancora poco.
La parola poco ha assunto completamente una nuova dimensione nelle nostre vite. Nello spostamento continuo è stata avverbio descrittivo e unità di misura, e spesso aveva il significato del solo passo o chilometro. Poco rotolava dalla lingua talmente spesso che veniva usata al posto di cena, letto, caldo, presto, microonde, asciugacapelli e altre parole ancora. Era difficile dire se poco fosse stata una bugia o la verità, e ancor più difficile di prima era dire che cosa in confronto ad altro fosse stato poco e che cosa molto. L’uomo ha smesso di essere misura di tutto nel momento in cui avevamo abbandonato l’ambiente conosciuto che ci circondava. Le misure a volte cambiavano di ora in ora, e spesso rimanevano uguali per settimane. All’inizio erano gli aerei che limitavano il nostro spostamento. Più spesso lo era il buio che, in base alla densità e alla temperatura, dettava le ore di sonno, di cammino o di guida. La misura più imprevedibile era la casualità, che spesso chiamano fortuna. Quella più difficile era la paura. Mia figlia era la misura più fragile.
Teneva costantemente in mano l’orsetto di peluche, i cui mani e piedi ciondolavano in modo innaturale, dondolando come estremità umane morte a ritmo di passi. La morte, quella artificiale che abitava il suo soffice corpo, rafforzava la presenza della morte tangibile. Vi udivo spesso mio marito che mi diceva di stare calma, il che mi turbava.
Uno degli errori dei genitori è sottovalutare gli orsetti di peluche. Nel momento in cui meno ce l’aspettiamo, ci colgono completamente indifesi, vulnerabili al loro delicato amore di stoffa.
Il primo e il secondo li ha ricevuti da qualcuno come regalo, il terzo e più grande lo ha comprato la nonna defunta, poi ne sono arrivati altri di chissà chi, e così in un momento ci siamo ritrovati circondati da famiglie di orsetti. Quando stavamo partendo, le ho detto di sceglierne uno che avrebbe viaggiato con noi, quello che secondo lei era il più coraggioso per aiutarci. Ma in che cosa avremmo avuto bisogno di aiuto è stato taciuto. Lei ha scelto il più spaventoso, non quello che amava più di tutti.
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Camminavamo uno dietro l’altro, creando involontariamente una piccola fila anche quando non ce n’era bisogno. Semplicemente, non avevamo niente di cui parlare messi così casualmente sulla carta geografica.
Non condividevamo niente e ciò era un tipo di solidarietà taciuta, la più struggente. Anche quando forse non avevamo abbastanza cibo o acqua, non cercavamo aiuto gli uni dagli altri, consapevoli che nessuno è in posizione migliore. Avevamo uno zaino, ognuno un enorme zaino da montagna nel quale avevamo compresso le nostre vite. In realtà, la verità è che abbiamo ridotto questa grande parola vita a cibo e altri fabbisogni. E di ricordi avevamo probabilmente tutti con sé solo un oggetto. Mia figlia l’orsacchiotto, io l’Ulisse di Joyce. Non è stato possibile portare con sé alcuna traccia di vita, qualche oggetto materiale, ma forse è stato meglio così. Sovraccaricati di cibo, raramente guardavamo indietro. Parlo al plurale perché avevo sempre la sensazione che tutti noi percepissimo la gravitazione della guerra allo stesso modo, che fossimo tutti ugualmente sotto pressione.
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Il silenzio e io abbiamo avuto un buon rapporto in passato. Man mano che si incarniva dentro di me negli anni di crescita al posto dell’amore materno, l’ho accettato come scudo, medicina e riposo. Tacere, nel disordine di tutte le cose, per me significava che presto sarebbe andato meglio.
Tacere significava anche accettare le insidie del silenzio.
Non ho mai detto a mia figlia che cosa ne era stato realmente di suo padre. La parte più importante della sua vita è stata cancellata con un’esplosione vicino a casa nostra, ma lui, mio marito e suo padre, è scomparso dai nostri giorni, settimane, anni nel totale silenzio. Non potevo sopportare le conseguenze del parlare di lui, a lei.
Se le dicessi che cosa è veramente successo, dovrei essere pronta alla sua profonda tristezza, o peggio ancora, alla completa perdita di speranza che infondeva in me. Se le mentissi e le dicessi che ritornerà, so che la ingannerei e non mi perdonerebbe mai. Alla fine ho taciuto. Forse avrei potuto mentire dicendo che ci ha lasciate e così suscitare in lei rabbia, ma di nuovo avevo paura della tristezza e del fatto che avrebbe potuto pensare che non gli è bastata, lei che è stata il nucleo del suo mondo. Non potevo farlo a lui.
Ben presto le bombe non erano solo episodi occasionali, ma precipitazioni giornaliere, e sapevo di dover scavare le nostre radici e trasferirle altrove. Il giorno in cui ci siamo lasciate dietro la città, guardavo a lungo gli alberi scavati vicino a casa nostra, alberi scavati dappertutto, e quelli che ancora si reggevano con i loro piedi saldi nella terra, consapevole che è solo questione di tempo quando anche essi avrebbero ceduto. Guardavo e pensavo a noi due come a due chiome d’albero che si staccano da noi stesse. Provavo invidia per gli alberi, ma al tempo stesso tristezza, perché andavano incontro alla morte senza obiezioni. Si trattava di bisogno o di coraggio?
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Le stelle nel cielo di notte, per quanto l’uomo possa concepirlo, sono incredibilmente lontane, spesso anche mille anni luce, e sono quelle più vicine che possiamo vedere a occhio nudo, quelle nella nostra galassia. Il nostro vicinato dello spazio. E abbiamo la sensazione che il presente sia qualcosa di tangibile. Nell’osservare l’attimo come una particella del presente, spesso ci aggrappiamo proprio alla luce credendo che sia immediata, che per essa non esiste il tempo così com’è. Ma anche la luce è viaggiatrice. Un’ostinata viaggiatrice intergalattica e interstellare che ha corso per mille o miliardi di anni luce fino a noi. Persino per arrivare dal Sole alle nostre finestre le sono serviti ben otto minuti. Ed è proprio in questo concetto che moriva il nostro presente. Neanche il Sole che vedevamo era lo stesso di quel momento, bensì quello di quasi dieci minuti prima. Le stelle che vedevamo di notte erano quelle che vedevamo qualche centinaia o migliaia di anni prima. Molte di loro che osserviamo attraverso il telescopio in realtà non ci sono nemmeno più. Che magia! Vedere qualcosa che non esiste più. La luce ha creato uno degli inganni più belli. È stata talmente veloce che ci ha convinti di poter avvertire il presente, ma al tempo stesso ci ha dato la possibilità di immergere i telescopi nel passato, quasi fino ai soli inizi dell’universo.
Mia figlia ha sempre visto in me la madre che ero stata prima della partenza, anche se in effetti anch’io, come molte stelle lontane, ero già spenta.
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Eravamo a qualche ora di macchina dal confine, il primo che abbiamo oltrepassato. Non facevamo domande, aspettavamo pazientemente come pecore dietro il telone. Il camion ci ha lasciati su un prato circondato dal bosco e al riparo da possibili sguardi. Uno per uno scendevamo nella profonda erba bagnata di rugiada vicino al macadam lungo il quale un autista sconosciuto ci aveva trasportati. Ancora adesso sento l’umida aria fresca del bosco, il suo respirare sonnolento e gli agitati respiri degli altri. Le piccole nuvole di nebbia attorno ai nostri visi. Due uomini hanno acceso le sigarette. Il fumo ha tentato di sopprimere il respiro freddo del bosco, e mai come allora mi ha infastidito sentirlo.
Lei ha dormito addosso a me ancora per ore mentre stavo seduta sul sacco della nostra vita futura. Era tutto ciò che avevamo, banconote nascoste nell’orsacchiotto di peluche che avrebbe dovuto pagarci tali viaggi, il cibo che avrebbe dovuto tenerci in vita. E il libro che pensavo avrei potuto, come un alieno, mostrare a qualcuno per stabilire il primo contatto. Come il messaggio che l’umanità ha spedito nello spazio a bordo del Voyager per spiegare il proprio passato, questo era il mio messaggio al mondo che stavamo per raggiungere, un mondo estraneo che si apriva davanti a noi e per il quale volevo profondamente credere che si possa spostare di un po’, come la persona sul sedile dell’autobus per far sedere anche noi. Solo un po’. Ecco, l’ho chiesto, educatamente nella lingua della più bella letteratura. Ingenuamente ho ordinato l’Ulisse in inglese, prima del viaggio, pensando che l’Occidente avrebbe avuto occhi per tale segno.
Altro? Non ho pensato molto ad altro.
Le prime bombe e i primi spari erano un avvertimento, ma quasi nessuno ascoltava. Pensavamo che tutto si sarebbe calmato, che la guerra sarebbe scappata altrove, lontano da noi, e non ci sembrava probabile che potesse bussare così presto alle nostre porte.
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Che cosa mi è rimasto di più impresso nella memoria?
Quando il cielo invernale si è scaraventato sull’intorpidita mano fredda della mia bambina, ho desiderato che il biancore di cui eravamo circondate ci accecasse immediatamente e completamente. Per non dover più marciare. Pensavo che sarei crollata, ma per qualche motivo i piedi mi portano avanti. A lei cola il naso. Nasconde la testa nella mia giacca.
Il concordato trasporto stavolta non è arrivato. Camminiamo da giorni. La neve giunge alle caviglie, e man mano che saliamo verso la montagna anche la neve sale verso le ginocchia. Desidero, per la prima volta da quando siamo partiti, la morte. Una morte silenziosa e come si deve, un luogo pulito in cui non c’è bisogno di fuggire da una maggiore paura in una minore, un luogo di profondo e stravolgente silenzio. Qui, la montagna morde ed è difficile dire dove siamo. Sento i suoi battiti come l’unico orologio. Ci sono per davvero e perché allora non sento il bisogno di mangiare. È forse possibile che ci siamo solo spente e ora dovrò camminare lungo la schiena della montagna per l’eternità. È lei questa? È veramente lei questa oppure il mio raggirato spirito ha portato via con se il ricordo di lei? Più di ogni altra cosa avevo paura dell’eternità in cui non siamo insieme. Tic-tac. Se il mio corpo congelato che non sente più nulla non è reale, il suo cuore lo deve essere. Tic-tac.
La mano tremante della mia bambina trienne è talmente fredda che cerco di coprirla, cerco di scaldarla con il palmo, poi con il fiato e infine, nel trascinare il suo sonno e lei, ci rinuncio e abbandono noi al freddo.
Io sono solo il corpo-portatore dei suoi anni. Lei pensa che tutto ciò che abbiamo passato non sia la fine del mondo, il che è qualcosa di più confortante che possa offrirmi. A me, corazza di lei e del resto del suo futuro.
La tristezza è la cosa peggiore e forse proprio questo spostamento costante sulla carta geografica verso una direzione sconosciuta è l’unico modo per fuggire sempre ai sui assalti. Nella tristezza si può affondare e annegare. Finché scappiamo, esiste sempre una probabilità che io sopravviva, che conservi in lei la vita, non pensando a nient’altro che alla sua mano fredda e alla montagna che ci punisce per la prepotenza che abbiamo per entrarle nella spina dorsale.
Tic-tac.
La polizia.
Questi sono i miei ricordi più limpidi. Il freddo. La paura. La vergogna di voler morire. Le luci e le uniformi. Il sollievo. Siamo vive. Insieme. Tic. Tac.
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La natura che attraversiamo evitando i percorsi trafficati ci è in fondo a favore, almeno lo è stata nel periodo di tarda estate e primo autunno. Adesso che novembre ormai si avvicina, sento il vento a volte percuotere talmente forte da trascinarci. Principalmente sopporta bene tutte le nostre giornate. Lei, essere giocherellone a cui un giorno dovrò spiegare la polarizzazione del presente, il fatto che al tempo stesso possiamo dividere gli atomi, essere dappertutto con internet e vivere al centro della guerra, per poi scappare dalla stessa e camminare talmente a lungo da chiedersi se siamo come le prime tribù che non conoscevano nemmeno l’uso dei cavali come mezzo di trasporto.
Non conosco i nomi degli altri.
Abbiamo saltato di fare conoscenza, ma viaggiamo insieme, a volte per settimane attraversiamo insieme percorsi selvaggi e scorciatoie, per settimane dividiamo la puzza e lo spazio limitato nei camion.
In un momento, mentre viaggiavamo stretti gli uni vicino agli altri, avevo il seno di una donna incinta sul mio viso.
Il seno morbido e caldo, agitato dalla creatura che cresceva per cibarsi del suo calore. Pensavo di poter sentire il piccolo crescere mentre il capezzolo di sua madre faceva pressione sul mio viso. Mia figlia dormiva profondamente nel mio seno stringendomi i capelli, mentre io pensavo alle nostre vite come a delle palline con le quali giocano sul prato i cani, piccoli e grandi, aggressivi e mansueti.
Lo abbiamo lasciato probabilmente morire. Non ho avuto cuore di sparargli, ma ancora più difficile è il fatto che ora mi porto dietro quel musetto pensando a tutte le probabili morti che potrebbero capitargli. Forse una granata. O forse solo una lunga ed estenuante fame. Prego dio che sia la granata.
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Sapete che cosa nessuno vi dirà mai?
Tutto sembrava come in una qualsiasi giornata e di un qualsiasi luogo nel mondo quando è arrivata la fine del mondo.
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In realtà, noi sappiamo che i nostri nomi non hanno più il proprio contenuto, la propria vita, perciò pronunciarli è inutile. Mia figlia mi chiama mamma, io la chiamo sole o amore, o topolina, per evitare il nome nella lingua che per noi, così dislocate, si è quasi estinta. I nostri nomi sono diventati troppo stretti per trattenerci al loro interno, così come la lingua che parliamo è diventata troppo grande per noi due in una straniera ed estranea geografia. Perciò io sono mamma, e lei è amore. Un cerchio perfetto di due sostantivi comuni.
Il mio straziato buon marito la rimproverava con tale affetto che spesso era del tutto inutile farlo. Cosa intendo lui non la educhi, si sentiva offeso dai miei commenti sul fatto che non si vive solo di affetto. Sono convinta che non ha provato rancore per nemmeno un istante passato con noi. Io sì.
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Non potevo farle da padre. Ero quella severa, seria parte della famiglia e occasionalmente tentavo di assecondare il loro senso dell’umorismo, ma in realtà spesso ero gelosa del loro piccolo mondo e desideravo un altro bambino solo per poterlo stringere forte a sé.
Oltre alla donna incinta che protegge la propria creatura con la pelle, io sono l’unica madre del nostro gruppo.
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Mentre per i corpi celesti, dai pianeti alle stelle, valevano le classiche regole alle quali anche noi ci atteniamo in strada o camminando, tale semplice fisica crollava completamente quando andavamo a osservare le minime parti della realtà. L’unica cosa che era comune a tutti questi mondi era il vuoto. Il vuoto in cui galleggiavano i corpi celesti e il vuoto in cui galleggiavano le particelle. È impensabile quanto vuoto ci sia nello spazio, più di novantacinque per cento, e lo stesso vuoto, in percentuale anche maggiore, faceva parte dell’atomo. In altre parole, tutti noi, esseri costituiti da atomi di carbonio, idrogeno e ossigeno, eravamo vuoti vaganti che parlavano, si moltiplicavano, osservavano il proprio vuoto e il vuoto sovrastante e quello intorno a sé tramite ingegni strani come il microscopio o il telescopio. Cercavamo i modi per giustificare il vuoto che a volte travasava dal proprio nascondiglio nella quotidianità. Consolante era il fatto che in questo enorme vuoto eravamo costretti a renderci conto che siamo tutti della stessa sostanza perché siamo in così pochi, noi esseri materiali o luci celesti, e che tutte queste minuscole parti che ora mettono in funzione la meccanica di precisione del nostro corpo sono solo residui di stelle, ciò che si era formato quando la grande fabbrica del calore era frantumata in fin di vita. La stella che ha dato vita all’umanità e a una nuova, minore stella.
Noi, piccoli universi di rumore e pensieri, eravamo solo una minima parte del grande ciclo cosmico che dura da miliardi di anni e siamo completamente casuali e sostituibili a una tale stella madre.
Ma la fisica, che ci appare tanto logica e naturalmente comprensibile, cambia radicalmente qualora decidiamo di osservare le particelle e il loro comportamento. Le particelle avevano la caratteristica di dipendere dai nostri occhi e dagli strumenti di misura. Esse, semplicemente, non esistevano come particelle se non le osservavamo. Erano dappertutto, erano onda e probabilità, però mai un’unica e localizzata particella, ameno che non avessimo deciso di osservarla.
Noi pure eravamo inspiegabili alle leggi classiche della fisica, ma come particelle eravamo di natura imprevedibile la quale dipendeva dal fatto che qualcuno ci vedesse. Quando ci muovevamo come minuscoli giocattoli per il paesaggio, eravamo un’onda che avanzava e che nessuno sapeva dove andasse. Solo nel momento in cui qualcuno si fermava per dare un’occhiata, ci trasformavamo in esseri umani.
Esseri umani che condividevano con tutti gli altri umani gli stessi atomi di una stella remota. Esseri umani che, oltre a questi atomi, non avevano in apparenza nulla in comune con il resto del mondo.
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Se avevo più di tutto paura della morte? No, avevo paura che me la rubassero.
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Come dormivamo?
Non lo so perché vi interessa, ma probabilmente vi chiedete come riuscivo a dormire avendo il terrore che me la prendessero. Semplice, manette. Legavo la propria bambina. A sé. Proprio così. Se anch’io avevo bisogno di riposare, mettevo la sua mano e la mia nel nostro nuovo giocattolo. Lei dormiva addosso a me. Ancora prima del viaggio avevo avvolto il suo anello con della stoffa, così era morbido. Non la graffiava. Non le lasciava lividi. Non avevo fasciato la mia parte. È strano quando ti strappano via così l’amore e a te ne rimane qualcosa di vivo vicino. Non puoi chiuderti e piangere.
Non ho lividi ai polsi? Sì, come vedete, sto mentendo. Però anche voi state guardando perplessi Joyce.
Sapevo di dover risparmiare le forze, di dover avere mani forti. Sarebbe romantico immaginare la donna che infila la sua mano nelle nude manette pensando a tutto ciò che si è lasciata dietro. Ma io ero troppo pratica per non essere ciò che dovevo essere, un valido e sano trasportatore di mia figlia.
Tic-tac.
Tutto diventa più chiaro e comprensibile quando lei dorme su di me, quando sento il suo cuore riempirsi energicamente di sangue in intervalli regolari. Spesso mi fa ridere, se prima di addormentarsi si sforza e scoreggia dicendo pup. Pup e scivola nel sonno. Quando in sonno dice papà, vedo lui di nuovo morire. Così vivo in lei, crolla in una sola parola ed esplode nel nulla. Papà.
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La morte era ancora una costante cosmologica. Persino le stelle che credevamo eterne erano, come anche noi, passeggere. Come anche le persone, esse nascevano e poi morivano in modi diversi. Alcune se ne andavano in sonno, silenziose e inosservate, trasformandosi in nane bianche per poi infine raffreddarsi completamente. Tali nane nere non abbiamo ancora osservato perché lo spazio è troppo giovane e le piccole stelle morenti non si sono raffreddate al punto da annerirsi. Alcune stelle esplodevano e lasciavano dietro a sé i loro veloci, minuscoli e pesanti cuori ruotare come stelle di neutroni. Alcune dopo tale esplosione diventavano impensabili zone della totale rottura tra cognizione e fisica, i buchi neri. Poche morivano nella grande esplosione e così illuminavano l’intera galassia dando tutto ciò che avevano nella nascita di un nuovo sistema planetario, di una stella o persino della vita stessa.
Il giorno in cui è morto, mio marito era a piedi di ritorno dal mercato. Una bomba è esplosagli vicino. Abbiamo seppellito i resti della camicia. La sua luce, che sono sicura abbia per un istante illuminato l’intero paese, l’abbiamo posata nella terra senza dire nulla. Ero sicura che lui, come una stella massiccia, si sia lasciato dietro un intero sistema planetario che ci stava aspettando, da qualche parte dietro le mura di casa nostra.
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Rappresentiamo forse per voi un pericolo?
Lo capisco. Madre e figlia che sono in grado di attraversare a piedi un quarto della circonferenza terrestre, lo ammetto, sono certamente capaci di un colpo di stato, capaci di dire un giorno di averne abbastanza e trascinare con sé migliaia di persone.
Che cosa succederebbe se un cittadino capisse di non essere un albero? Di poter ribellarsi, di poter andarsene?
Avete ragione. Madre e figlia sono una bomba nucleare.
Tic. Tac.
Pup.
traduzione in italiano: Sara Blažević