Rolandi, Francesca: Il coraggio di fuggire nella storia dell’ultimo secolo (2019)
Il 2018 e il 2019 passeranno probabilmente alla storia come anni in cui l’Europa ha cercato di sigillare le frontiere.
Gli arrivi via mare hanno visto una riduzione significativa, in particolare con le politiche dell'attuale governo Lega Nord – Movimento 5 stelle italiano, che avevano già visto una loro premessa nelle azioni intraprese dal precedente governo per ostacolare i salvataggi in mare da parte delle ong. D'altra parte si assiste a una logica del tappabuchi, in cui si chiude una via di arrivo e se ne aprono altre. Le rotte migratorie via mare verso l'Europa – in direzione dell'Italia, ma anche della Grecia e della Spagna – vedono un aumento a dismisura del numero delle vittime rispetto ai numeri delle partenze. Ma le vittime si susseguono anche sulle frontiere via terra dell'Unione Europea, in particolare a quelle tra la Bosnia Erzegovina e la Croazia, dove esiste al momento una delle situazioni più problematiche. Anche la frontiera tra Croazia e Slovenia, quindi tra spazio Schengen e spazio non Schengen dell’Unione europea, ha visto diverse vittime in particolare sul fiume Kupa/Kolpa. Per non parlare del confine tra Italia e Francia, dove si parla di una trentina di cadaveri ritrovati quest’anno.
Profughi in fuga da regimi autoritari o da luoghi nei quali non vedono una propria realizzazione sono fermati alle porte dell'Europa, da paesi nei quali spesso non vogliono nemmeno migrare. Fermati spesso con la violenza del sequestro in mare aperto, come succede in Italia, o in Croazia dove la violenza fisica è sistematica, o in Slovenia dove sono tenuti fuori dal filo spinato.
La fuga attraverso le frontiere è l’ultima carta che rimane a questi individui da giocare. Sebbene nelle narrazioni scioviniste la fuga sia spesso associata al concetto di codardia, alla mancata volontà di affrontare di petto un nemico, qui vogliamo mettere in luce come essa possa essere piuttosto un atto di coraggio per sfuggire a una situazione apparentemente senza uscita.
Oltre alla dose di coraggio necessaria per abbandonare la propria vita precedente e intraprendere un percorso verso l'ignoto, va aggiunto il coraggio di affrontare un lungo viaggio reso rischioso da circostanze ambientali ma anche dall'intervento degli stati che cercano di impedire, spesso tramite l'uso della forza, l’ingresso di migranti.
Ma cosa hanno rappresentato storicamente le fughe in Europa e nella regione di cui ci occupiamo? E quali sono state le risposte offerte dai paesi di accoglienza dei profughi? Uno sguardo al concetto stesso di fuga nell’ultimo secolo potrà forse aiutarci a capire l’evoluzione storica del fenomeno ma anche i diversi significati politici che furono ad esso associati. E le diverse reazioni delle società di accoglienza, che oggi, come mai prima di ora, sembrano mancare totalmente di coraggio.
Alla fine della prima guerra mondiale vi furono spostamenti di profughi di enormi proporzioni: gli armeni, i russi bianchi in fuga dalla Rivoluzione d’Ottobre – che arrivarono nel Regno di Jugoslavia –, lo scambio di popolazione tra Grecia e Turchia nel 1923. Ma ci si potrebbe chiedere se il concetto di fuga individuale possa applicarsi a questi spostamenti di popolazione di grandi dimensioni.
Con l'instaurazione del regime fascista iniziarono le partenze clandestine degli antifascisti italiani che andavano in Francia e in Svizzera, mentre in Jugoslavia scappavano sloveni e croati perseguitati dal fascismo, ma dalla Jugoslavia monarchica scappavano i comunisti dopo la messa al bando del partito nel 1921.
In alcuni casi queste fughe furono particolarmente rocambolesche, come quella del vecchio leader socialista italiano Filippo Turati, che Carlo Rosselli, Ferruccio Parri, Sandro Pertini – alcuni dei padri nobili dell’antifascismo italiano, aiutarono a fuggire via mare clandestinamente in Corsica.
Ma oltre ai politici ricorrevano alle fughe molti emigranti economici che attraversavano il confine illegalmente per sfuggire alle restrizioni imposti dagli stati, come accadeva agli italiani che emigravano illegalmente in Francia. Sandro Rinauro nel suo volume Il cammino della speranza riprende le parole di due geografi francesi che così descrivono l’ostinatezza con cui gli italiani cercavano di entrare nel paese d’oltralpe: “Per passare la frontiera gli italiani impiegano ogni sorta di sotterfugi: matrimoni per procura, passaporti per visitare un'esposizione, per assistere a un pellegrinaggio, per andare al capezzale di un malato” (p. 14). Molti attraversavano la frontiera a piedi e alcuni di loro persero la vita durante il viaggio.
C'erano poi coloro che espatriavano illegalmente non in fuga da qualcosa ma per raggiungere qualcosa. Così accadde a molti antifascisti desiderosi di prendere parte alla guerra di Spagna che dovettero ricorrere a vie di fughe illegali per raggiungere il paese dall'Italia fascista ma anche dal Regno di Jugoslavia che aveva aderito al Comitato di non intervento e si impegnava attivamente ad impedire le partenze di volontari per la Spagna. Nel 1937 oltre 150 volontari jugoslavi pronti a imbarcarsi clandestinamente su una nave diretta in Spagna nei pressi dell’isola di Brač furono arrestati. Ma poco dopo vi sarebbe stato anche il viaggio in senso inverso degli antifascisti che dalla Spagna ormai conquistata da Franco cercavano di scappare; alcuni lo fecero via mare e furono letteralmente pescati da navi italiane e portati al confino in Italia
Quindi si scappava da qualcosa ma anche per raggiungere qualcosa, qualcosa che magari poi si rivelava molto diverso da come lo si era immaginato.
Dalla seconda metà degli anni '30 furono gli ebrei a rappresentare una gran parte delle popolazioni in fuga. Il caso più famoso fu quello della nave Saint Louis che salpò nel 1939 dal porto di Amburgo verso il nuovo mondo con a bordo 930 ebrei tedeschi in fuga, ma che venne respinta dagli Stati Uniti e dal Canada. Curiosamente a manifestare un'ampia propensione ad accettare profughi fu esclusivamente il sanguinario dittatore dominicano Rafael Trujillo. Alla fine la gran parte dei fuggiaschi furono riportati in Europa occidentale e oltre 254 di loro persero la vita nell'Olocausto.
Ma le fughe continuarono per tutti gli anni della seconda guerra mondiale, con milioni di persone che cercavano in un modo o nell'altro di mettersi in salvo. Ci furono anche paesi che accolsero con generosità i fuggiaschi, come la Svizzera. In molti casi, ma non sempre. E qui appare eclatante il caso di Liliana Segre, una dei maggiori testimoni italiani dell'Olocausto, oggi senatrice a vita.
Il 7 dicembre 1943 Liliana, a 13 anni, era riuscita ad attraversare il confine con il padre e altri parenti –tutti ebrei italiani in fuga nell'Italia del Nord occupata dai nazisti. Varcarono il confine con documenti falsi grazie agli spalloni – che facevano contrabbando sia di sigarette che di uomini – ma furono respinti da un funzionario svizzero zelante. Il Canton Ticino ha chiesto scusa a Liliana Segre ma quel respingimento le costò l'internamento ad Auschwitz.
Alla seconda guerra mondiale seguì il periodo post-bellico in cui la geografia nazionale di tutta l'Europa orientale fu volutamente semplificata in accordo all’idea che la complessità sarebbe stata foriera di altri conflitti e andava conseguentemente eliminata, omogeneizzando le popolazioni. Quindi il dopoguerra, lungi dall'essere tempo di pace, fu la premessa di oltre un decennio di spostamenti forzati nei quali sparirono alcune comunità ivi insediate da secoli, come le popolazioni germanofone in tutta l’Europa orientale o gli ebrei della Galizia. Sebbene il contesto dell'area alto-adriatica fosse parzialmente diverso dal resto dell’Europa orientale, come sappiamo non fu certo immune dalle partenze di masse di popolazioni. Ancora negli anni ’60 del ‘900 il Litorale sloveno e l’Istria apparivano parzialmente abbandonati. Se la maggior parte delle persone partiva attraverso il meccanismo delle opzioni, per tutti gli anni del dopoguerra frequenti furono le fughe, spesso rocambolesche, via terra o via mare. Il fenomeno delle fughe dalla Jugoslavia continuò fino agli anni ’60, finché gli jugoslavi ebbero accesso al passaporto e furono autorizzati ad espatriare ed emigrare legalmente. Ma le fughe sulle frontiere non cessarono perché la Jugoslavia iniziò a diventare un paese di transito per migliaia di persone che attraversavano la penisola balcanica.
Se guardiamo all’Europa della guerra fredda vediamo che tutta la cortina di ferro fu un colabrodo e che proprio il simbolo della chiusura, il muro di Berlino, fu costruito per mettere fine all’emorragia di forza lavoro – e di cittadini. Le fughe rappresentavano il disagio di chi si sentiva prigioniero nel blocco sovietico ed erano utilizzate dal cosiddetto “mondo libero”, dal blocco occidentale, per presentarsi come un luogo dove i diritti umani vengono rispettati. Ma si andava oltre: le fughe erano l’emblema del fallimento del socialismo reale e vennero utilizzate ampiamente dalla propaganda occidentale. Per i fuggiaschi dal blocco sovietico venne istituito un apposito programma, l’United States Escape Program, che offriva supporto e condizioni vantaggiose per i profughi, specie se provenivano da posizioni di prestigio. Coloro che fuggivano dal blocco sovietico venivano chiamati defectors in un linguaggio che riproduceva il lessico militare della guerra fredda.
Secondo Zellerbach, un diplomatico statunitense a capo di una commissione istituita per studiare il fenomeno dei profughi dall’Europa, chi scappava votava con i piedi. Questa formula, che oggi suona amaramente ironica, permise tuttavia a decine di persone di rifarsi una nuova vita oltrecortina. Il sistema dell’asilo in Europa nasceva come un prodotto della guerra fredda e ne erano esclusi in genere coloro che provenivano da dittature di destra (spagnoli, greci e portoghesi) e i non europei, che in molti casi – come in Italia – non ebbero possibilità di chiedere asilo fino al 1989.
Ma torniamo a questi confini, in particolare quello che divideva Italia e Jugoslavia.
Dalla metà degli anni '60 furono alcune di migliaia all’anno i cittadini del blocco sovietico che approdarono come richiedenti asilo in Italia per poi essere ricollocati oltreoceano. La maggior parte arrivava attraverso la Jugoslavia, alcuni si staccavano da gruppi organizzati, delegazioni ufficiali, o cercavano di attraversare clandestinamente i confini. Ricevere un passaporto con visto per la Jugoslavia era molto più facile che ottenerne uno per l’Italia.
Nel solo agosto 1967, in meno di un mese, si registrarono rocambolesche fughe attraverso la Jugoslavia, descritte nei dettagli dalla stampa dell’epoca. Un elettricista cecoslovacco oltrepassò con un salto la recinzione al confine. Due giovani ungheresi percorsero 25 chilometri su un canotto di gomma fino a raggiungere Grado. Altri cinque loro connazionali che tentavano alcuni giorni più tardi di raggiungere l’Italia dalla Jugoslavia su un’imbarcazione improvvisata naufragarono; uno di loro annegò e gli altri furono fortunosamente da un’imbarcazione di passaggio. Un dentista cecoslovacco, in auto con la sua famiglia, schiacciò il piede sull’acceleratore e travolse la sbarra del valico, lasciando le guardie di frontiera jugoslave attonite in una nuvola di polvere. Un ginecologo ungherese e la moglie attraversarono il confine nel bagagliaio di un’auto tedesca. Pochi giorni dopo un insegnante di geografia rumeno di 25 anni fu salvato dall'annegamento dopo che il suo gommone si era sgonfiato. Il caso più eclatante tuttavia rimaneva quello di una contorsionista romena che aveva attraversato il confine appallottolata sotto il sedile anteriore dell'auto di un amico. Alle volte a chiedere asilo erano anche individui che si trovavano legalmente in un paese del blocco occidentale e decidevano di non tornare indietro.Nello stesso 1967 due ballerini della Compagnia dell'Operetta ungherese si erano staccati dal gruppo durante la tournée in Italia e avevano presentato richiesta di asilo.
Se oggi nella memoria è rimasto impresso soprattutto il muro di Berlino, tutte le borderlands tra i blocchi della guerra fredda, oltre alle zone grigie come la Jugoslavia, furono per decenni segnate da continui tentativi di fuga. E i confini da attraversare non erano solo quelli terrestri. Nel 1969-1970, in meno di un anno si contarono sette dirottamenti di aerei da parte di cittadini del blocco sovietico verso aeroporti tedeschi o austriaci.
A scappare erano persone molte diverse tra loro. C’erano i membri di una classe media insoddisfatta e non sempre politicizzata, artisti, intellettuali, calciatori Ma partivano anche molti diseredati, che spesso tentavano la fuga alla disperata, attraverso confini presidiati militarmente. Inutile dire che furono loro a pagare il più alto tributo di sangue. È impossibile stimare il numero di coloro che persero la vita crivellati dai colpi delle guardie di frontiera dei propri paesi d’origine (e in alcuni casi anche jugoslavi), annegati nei fiumi o in mare, tentando di attraversare i confini in zone impervie. Per esempio, sebbene se ne sia persa la memoria il confine rumeno-jugoslavo fu un luogo di fughe particolarmente sanguinose.
La generosità con cui la maggior parte dei richiedenti asilo del blocco sovietico fu accolta in Occidente, tuttavia, non era disinteressata, ma rappresentava uno dei cardini della narrazione sul “mondo libero” che offriva asilo agli individui – quasi esclusivamente europei – in fuga dalla persecuzione. Le fughe dal blocco sovietico incarnavano la natura oppressiva dei regimi oltrecortina che, nonostante l'uso della forza, non riuscivano a trattenere i propri cittadini all'interno dei propri confini. La mancata libertà di movimento era considerata a tutti gli effetti una violazione dei diritti umani, così come le punizioni che attendevano in patria i colpevoli di defezione. L'articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo sanciva il diritto di ogni individuo a lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, nonché di ritornarvi.
L'accoglienza verso gli esuli provenienti dall’Europa orientale era condizionata dal fatto che i numeri erano limitati – a causa del controllo delle frontiere operato dalle autorità del socialismo reale – e i meccanismi di ricollocamento erano nella maggior parte dei casi funzionanti.
Tuttavia, è innegabile che, nonostante le strumentalizzazioni politiche, si diffuse in quegli anni un'empatia per la figura del profugo, spesso assimilata a quella del dissidente, a cui sarebbe stato necessario garantire i diritti primari e possibilmente offrire una seconda vita. Proprio perché aveva avuto il coraggio di votare con i piedi. O anche di votare con i remi, come fecero i boat people, le migliaia di individui in fuga dal Vietnam del Sud ma anche da altri paesi dell’Indocina nella seconda metà degli anni ’70.
Questa costruzione iniziò a scricchiolare negli anni '80, con l'esplosione dei numeri delle richieste di asilo, e si incrinò con i primi anni '90. Nel 1986 vi fu forse una delle ultime vittime alla frontiera italo-jugoslava nell’epoca della guerra fredda, un cittadino rumeno freddato dalle guardie di frontiera jugoslave, un “incidente” giustificato come reazione a un tentativo di aggressione da parte del profugo stesso.
Una volta esauritasi la guerra fredda e cancellati dall'Europa i paesi del socialismo reale, considerati per tanti anni una deviazione rispetto alla “normalità democratica”, il sistema dell'asilo iniziò a riformarsi in accordo alle esigenze della fortezza Europa. A distanza di ormai quasi trent’anni della caduta del muro di Berlino, in modo ironico e paradossale, la situazione pare essersi ribaltata. Gli individui in fuga di oggi possono generalmente uscire liberamente dai loro paesi ma non trovano nessuno disposto ad accoglierli.
Possono provare a reclamare il diritto di votare con i piedi ma tutti rideranno loro in faccia. Lo stesso vale per i boat people di oggi, per i quali l’Europa appoggia tacitamente la linea di Salvini, far sì che non arrivino in Europa e riconsegnarli al paese dal quale cercano di scappare.
Nel tentativo di esternalizzare il controllo delle frontiere, l’Unione Europea stringe accordi con i paesi di transito e provenienza dei profughi per tenerli, con ogni mezzo, prigionieri all’interno di quei confini ma all’esterno di quelli europei. E a fare da antemurale, nella narrazione di un’Europa assediata dai profughi, sono proprio molti dei paesi che fino a poche decine di anni fa vedevano i propri cittadini morire sulle frontiere o emigrare alla cieca in cerca di una vita migliore.