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Turcinovic Giuricin, Rosanna: Troppo presto, troppo tardi risorgere dalle acque… (2023)

FORUM TOMIZZA 2023

CONVEGNO CARNEVALE SENZA CONFINI

STAZIONE ROGERS, TRIESTE

 

Rosanna Turcinovic Giuricin

"Troppo presto, troppo tardi risorgere dalle acque…"

 

Sono andata a Momichìa fino al cancello di casa sua ed ho sussurrato: “Fulvio, non ci sono più confini”. La voce era la mia o la sua, chi lo sa, in terra istriana succedono cose incomprensibili ma vere, si mescolano i fatti con le emozioni e le emozioni producono fatti: è sempre stato così anche quando i confini ci facevano sentire dilaniati, impazziti di rabbia, corrosi dall’ingiustizia. Come risposta nascevano progetti, si immaginavano mondi diversi e rapporti possibili, un remitur. Si toglievano pietre dalle fosse con testarda consapevolezza: come dal tomizziano “Ieri, un secolo fa” (Milano, Rizzoli, 1985)

“…E il vecchio riafferrò la pietra, la sollevò con un solo sforzo fino al petto. La gente ormai lo circondava. Ci fu un po’ di scompiglio. Deposero a terra la bara della signora Catina, e tutti, sgranarono gli occhi, stettero a guardare. E uno che fosse apparso lì in quell’istante avrebbe avuto la strana impressione che quel vecchio uomo, sporco e sudato e lacero, si stesse scavando da sé la fossa, e tutta quella gente assistesse in silenzio a un terribile, barbaro rito.

La pietra era ormai sull’orlo, riusciva ad allungare un occhio su quel confuso e inconsueto formicolare di gente. A un segno del parroco due uomini fecero per accorrere.

“No, andate via!” gridò il vecchio. E fu quell’urlo strozzato, disumano, che stava per uscirgli poco prima. Ma in esso trovò l’ultima briciola di forze, ch’egli strappò con rabbia dai suoi nervi e muscoli ormai logori. E fu fatto. Il masso venne fuori, rotolò un poco trascinando con sé il vecchio, il quale vi si accasciò sopra, penzolando con metà corpo nella fossa. A un altro cenno della mano paffuta due uomini lo trassero fuori del tutto, e il prete cercò il chierichetto con la bacinella dell’acquasanta per benedire la fossa”.

Conosciamo bene il rapporto di Tomizza con la terra, nella sua definizione geografica ma anche fisica. Quand’era nella vigna, intento ai lavori che la stagione imponeva, viveva il suo ritorno, l’anima si chetava in quell’affermazione condivisa con autori istriani e che si riassume in un “qua son paron mi” che intreccia il passato col presente, l’oggi col sempre.

Quando mi trasferii in Italia, a Trieste, per la precisione nel 1992, spinta da un’ingiusta guerra jugoslavo-balcanica, una delle prime iniziative fu di organizzare la presentazione degli autori di “frontiera” nella prestigiosa sala del Circolo delle assicurazioni Generali. Invitai tutti, tutti quelli che con le proprie opere non avevano mai varcato il confine, spesso impossibilitati a pubblicare i propri libri e quelli che andati esuli o nati in esilio avevano pubblicato storie di profuganza, estraneità, alienazione. A Trieste di questi autori non si parlava, solo recentemente gli editori hanno rivolto lo sguardo ad est. E Tomizza veniva visto con sospetto, una voce fuori dal coro ma autorevole, ascoltata altrove. Vi partecipò con “Rapporti colpevoli”, scuoiando i confini come fossero un coniglio. Ci eravamo già conosciuti parecchi anni prima.

Che cosa ne pensa della letteratura di frontiera? Avevo chiesto in un’intervista agli inizi degli anni Ottanta. Mi guardò senza vedermi, seguendo un suo pensiero nei meandri delle riflessioni e mi rispose svogliato: “la scrittura non ama le etichette, perché di frontiera?”. Il convegno al quale stava partecipando si chiamava proprio così. Glielo feci notare e sorrise dell’inutilità di quella precisazione. Il suo pensiero andava oltre, in quell’oltre che gli autori di questi territori ad est, dell’Italia, di Trieste, di Capodistria, di Fiume, in quell’est che sposta continuamente l’asticella e non si ferma mai, conoscono bene. Un “oltre” composito e forte, quasi testardo come la volontà del vecchio Andrea che vuole togliere la pietra dal fondo della fossa con le sue mani, superando la stanchezza dell’età, la fragilità degli anni. Facendo leva su una caparbietà che è mito di questi spazi. Duri come l’Istria che è dolce e forte, mai molliccia, tosta fino alla fine. Un mondo composito dove ogni sfumatura è protagonista, ognuno ha un ruolo ben preciso.

“Finalmente gli hanno tolti…” E’ troppo tardi? La risposta nasce nella mia testa: è lui o sono io. La felicità ha bisogno anche di tristezza per non perdere lucidità. L’ho scritto in “Occhi mediterranei”, di Palomar, Turcinovich, Fertilio, Pendragon 2021, nel capitolo “Una casa in fondo al mare”: “Mia madre, allegra, folle, imprevedibile, irraggiungibile, se n’è andata, in una giornata di sole, portandosi via quel profumo di mare che era anche mio e che non riesco a ritrovare. Mio padre era andato avanti due anni prima. Non avevano mai voluto o potuto imparare la lingua della gente arrivata a colmare i vuoti dell’esodo intorno a loro. ‘Qua xe casa mia’ ripeteva lei testarda, ottusa, rabbiosa. Quel mare era suo, anche se sapeva, o forse proprio per questo, che non apparteneva a nessuno. Per questo lo rispettava, decideva lui, la calma e la tempesta.

Ed ora cerco, nei cassetti della memoria, l’avvolgente silenzio di quei pomeriggi di studio, io infilata nei libri, lei e mio padre l’uno a leggere, l’altra a cucire o stirare senza proferire parola, ‘studia picia, studia’, per non interrompere la mia concentrazione. Solo quando avevo finito, c’era spazio per il racconto, di chi era andato lontano e dei pochi superstiti rimasti su quella riva dopo l’esodo. Assorbivo, come spugna, anche il loro dignitoso dolore. Sapevo che il mare li avrebbe riportati tutti lì, l’estate successiva, senza intuire che sarebbe toccato anche a me raccogliere le ultime briciole di un mondo dissolto, recuperando memoria. Un compito per la vita, una scelta intima e professionale allo stesso tempo, nel rispetto di quel mare che portava nella cucina di mia madre la tradizione, la dignità, la ricchezza, storia e letteratura, musica e pittura, amore e verità, da esplorare come in un caleidoscopio dalle infinite possibilità. Non un compito facile, a volte frustrante per il tempo che scivola via inesorabile prosciugando le occasioni, o per le tempeste che travolgono doveri e diritti mettendo in pericolo le nostre certezze…”.

Abbiamo sprecato tempo ed energie a farci la guerra, a scavare fosse a chi tentava di unire le anime, a dar pace ai morti. La divisione paga, soprattutto nella politica, ce lo insegnano i romani ma noi che non impariamo continuiamo a farci male.

“La mutabilità della storia – disse Tomizza in un’altra intervista - contribuisce a rendere questa terra precaria e determina nell’uomo e nello scrittore un maggiore attaccamento, per il timore di poterla perdere da un momento all’altro. Vi è il desiderio di fermarla, bloccarla. Io l’ho vista cambiare molte volte, e i più anziani molto più di me: il periodo austriaco, il fascismo, il periodo jugoslavo e così via. Certamente, quindi, i fatti hanno condizionato. Secondo me è una terra che si apre all’altro, alla storia, agli avvenimenti…”.

E quindi perché troppo tardi? Perché i cambiamenti recenti hanno mutato profondamente il suo volto, aggredita dall’era del digitale e del profitto sfrenato dove tutto è provvisorio e maledettamente veloce, sta collassando perdendo sé stessa, xe tuto un Carneval. Non c’è tempo per riflettere, per cui il mordi e fuggi che non era mai piaciuto alle genti di questo mondo magico, ha vinto, è diventato prassi.

Non piacerebbe a Tomizza che continua a parlarci con la forza di Andrea, col peso della pietra ficcata nella terra, con la caparbietà di una stirpe antica, da evocare e festeggiare nel presente, per dare finalmente un senso alla dissoluzione dei confini e continuare a sognare.