Corso di scrittura creativa per giovani talenti di Laura Marchig sul tema “Asilo”
I racconti che presentiamo sono stati scritti da due dei partecipanti al Corso di scrittura creativa per giovani talenti che si è tenuto quest’anno presso la Comunità degli Italiani di Fiume e che è stato finanziato dal Consiglio per le Minoranze della Regione Litoraneo Montana presieduto dalla prof.ssa Melita Sciucca. A tenere il Corso, che ha avuto una durata complessiva di 30 ore scolastiche ed è iniziato nel febbraio 2018 per concludersi alla fine di maggio del 2018, è stata la scrittrice fiumana Laura Marchig:
Il Laboratorio era incentrato sul “Racconto breve” e lo scopo finale era quello di partecipare, in qualità di esterni, al Concorso internazionale per un racconto Breve “Lapis Histriae 2018” che quest’anno aveva come tema “Asilo”.
I giovani, allievi della Scuola Media Superiore in Lingua Italiana di Fiume e del Dipartimento di Italianistica della Facoltà di Filosofia dell’Ateneo Fiumano, hanno imparato a seguire quello che abbiamo chiamato “un percorso di libertà della scrittura attraverso l’apprendimento di specifiche regole e tecniche”. Grande attenzione è stata data al rapporto che lo scrittore deve avere con sé stesso e il mondo che lo circonda. Sono convinta personalmente che sia necessario puntare sui giovani e scoprire e incoraggiare dei giovani talenti. Per tutti noi che abbiamo fatto un determinato percorso e una determinata scelta di vita, questa deve essere una nostra priorità e la nostra missione.
Laura Marchig
ALESSANDRO CASORELLA
(Scuola Media Superiore Italiana di Fiume - Classe I – Indirizzo: Ginnasio Scientifico - Matematico)
Aisha
Per tutto il tempo, Aysha si era preparata ad affrontare quel momento. Uno dei suoi peggiori incubi, che allo stesso tempo era anche uno dei suoi più folli desideri, stava per realizzarsi. Incubi e folli desideri: li stava vivendo entrambi. L’incubo era quello di dover macchiare la propria coscienza, che fino ad allora era rimasta pulita. Il desiderio era quello di mettere in pratica ciò che per tanto tempo aveva sognato di fare. Perché i sogni son desideri e gli incubi sono prima di tutto dei sogni.
Aysha Alnamar aveva solo diciassette anni e per tutta la vita era stata costretta a rimanere in silenzio, a stare nell’ombra, per evitare di avere dei problemi. La gente, fino ad allora, si era divertita a giocare con lei, con la sua situazione. Adesso i ruoli si erano invertiti: ora era lei ad avere il comando, a condurre le regole del gioco. Il mondo sembrava essersi fermato. Ed era lei ora quella che aveva il potere di decidere. Ma sentiva che c’era qualcosa che non andava, qualcosa che non riusciva a comprendere.
Improvvisamente le si offuscò la vista, le mani cominciarono a tremare. Strinse i denti, non doveva mostrare nessun segno di debolezza. Non ora.
Bisognava agire immediatamente. Se avesse aspettato, avrebbe rischiato di far saltare i suoi piani.
Qualcuno le stava parlando, ma non riusciva a capire. Se ne stava là, immobile: sentiva le parole dell’uomo, ma non riusciva a decifrarle. Aveva voglia di scappare.
“No”, sentì sé stessa mormorare, “non adesso.”
Iniziò a capire che cosa le stava accadendo. Non le capitava da anni. Non sapeva neanche come definirlo. Un flashback, una serie di ricordi che ritornavano prepotentemente alla memoria. E mentre ricordava, non riusciva a fare altro. Rimaneva immobile, fissa nel suo ricordo, nella sua suggestione. La prima volta che le era accaduta una cosa del genere, lo aveva detto a suo padre. Lui le aveva spiegato che doveva trattarsi di una rievocazione. Era la stessa tecnica che usavano alcuni psicologi per far rivivere ai loro pazienti delle esperienze del passato, esperienze spesso dure, e questo metodo veniva impiegato al fine di curare dei traumi psichici. L’unica differenza era che lei cercava di fare questa esperienza da sola. Comunque non riusciva a trarne alcun giovamento, al contrario.
Sprofondò ugualmente nel limbo dei ricordi.
La prima visione che ebbe, fu la più dolorosa. Riportò Aysha a un’epoca che le aveva lasciato nel cuore tanta amarezza e tristezza. Non era mai stata una bambina come le altre. Veniva da una famiglia diversa per cultura e tradizione. Si può dire che fosse nata in un posto che era in contradizione con le sue origini. I genitori di Aysha erano kurdi, ed erano praticamente prigionieri in un Paese straniero, anche se vi erano nati, la Turchia. La persecuzione dei kurdi da quelle parti, era una cosa comune, e la morte di suo padre ha a che vedere con questo.
Quel giorno, Aysha, la cui madre era morta nel darla alla luce, era di ritorno da un’altra faticosa e scoraggiante giornata passata a scuola. La scuola, per Aysha, faceva solitamente rima con calvario e discriminazione razziale. Come entrò nel portone di casa, si trovò a incrociare un poliziotto che camminava di fretta. Abbassò gli occhi, cosa che faceva ogniqualvolta le capitava di avere paura di venire aggredita. I loro sguardi non si incrociarono nemmeno. Aysha arrivò alla porta di casa. La aprì, entrò in fretta e la richiuse precipitosamente. Come le capitava ogni volta che ritornava nel piccolo appartamento che condivideva con suo padre, appena chiusa la porta, si sentì sollevata. Adesso era al sicuro, si trovava a casa, poteva vivere senza nascondersi, senza sentirsi continuamente inquieta e impaurita.
Andò direttamente in cucina, e quello che vide la lasciò attonita e incapace di muoversi. Suo padre era steso in terra, le mani strette al petto, il viso bloccato in una smorfia di dolore. Aysha riuscì a scuotersi da quella specie di paralisi che l’aveva colta, e si chinò su suo padre. Era gravemente ferito. Gli prese la mano.
“Parti” le disse il padre con voce tremante. “Scappa insieme ai nostri vicini persiani. Ho parlato oggi con loro. Hanno i soldi per pagare un traghettatore. Avevo previsto di andare con voi, ma non posso, come vedi… Il poliziotto”, proseguì con difficoltà, “è lui che mi ha…”
Non terminò la frase.
Gli altri ricordi erano più offuscati. Aysha si vide partire da Ankara. L’amico di suo padre che le metteva una mano sulla spalla. “Andrà tutto bene. Andremo insieme. Saliremo su un camion che ci porterà lontano da qui. Ci sistemeremo in fondo al camion.”.
“Dove andremo?” domandò lei.
“In Francia, a Lione, poi ci arrangeremo per raggiungere il Regno Unito. Ascoltami bene, durante il viaggio ci infileremo dei sacchi di plastica sulla testa. Così, i cani alle frontiere non sentiranno il nostro respiro. Ricordati che siamo passaggieri clandestini.”
L’uomo le infilò una busta di plastica in testa e Aysha, sentendo sulla faccia quella roba sintetica e soffocante si sentì come in trappola. Tutto intorno a lei si fece buio, credette di svenire.
Ricordò il giorno del suo dodicesimo compleanno. Nessuno l’aveva aiutata una volta arrivata in Francia, a Grenoble, dove aveva deciso di fermarsi, nessuno che le avesse dato una mano. Viveva per strada da più di una settimana. Nemmeno lei sapeva come fosse riuscita a sopravvivere in quei giorni. Non conosceva la lingua e la gente sembrava fuggire al solo vederla. Stava aspettando qualcosa dentro a un bar (anche se non sapeva cosa), quando un uomo le si avvicinò e le tese la mano.
“Ti sto osservando da un po’. Hai dei problemi, o sbaglio?”
Massinissa, questo era il nome dell’uomo che quel giorno la prese a vivere con sé senza chiederle niente in cambio, ma offrendole asilo e assistenza. Aysha viveva con lui oramai da anni. Quel giorno, uscendo da scuola, lo vide in mezzo alla strada, stava discutendo animatamente con due poliziotti.
“I suoi vicini ci hanno informato che ospita a casa sua una giovane clandestina”.
“Io, cosa?”
Massinissa incrociò lo sguardo di Aysha e le fece segno di nascondersi.
“Vivo da solo!” cercò di giustificarsi.
“Ci dispiace, ma ci hanno mandato dei filmati”, insistette uno dei due poliziotti. “Le prove ci sono. Lo hanno confermato tutti quelli che abitano nel suo condominio.”
Seguirono lo sguardo di Massinissa e la videro. Aysha non ebbe neanche la forza di scappare. Si immobilizzò, sentendosi intrappolata. I poliziotti afferrarono Massinissa per le braccia.
“Questa è la ragazza senza documenti che va alla scuola qui di fronte.
“Dai, disse l’altro, “è ora di finirla!”
E lo portarono via.
Ritornò con la mente al presente … oramai era troppo tardi. Aysha vide dei gendarmi arrivare correndo. Non aveva voglia di sparare, ma non poteva arrendersi. Voleva mostrare che non sapeva solo subire. Perché sì, era l’unica cosa che aveva sempre fatto. Subire, ancora e ancora. E ogni volta per colpa dello Stato, della” giustizia”. In Turchia poteva essere maltrattata, suo padre poteva farsi ammazzare, solo perché la loro etnia non piaceva alla legge. In Francia? L’unica persona ad essere stata umana nei suoi confronti era stata umiliata e messa in prigione. Lei, per gli altri, era solo Alnamar, la tigre, e non Aysha. Adesso si apprestava a fare quello che facevano le tigri quando soffrivano: ribellarsi, mostrare la loro vera natura. Si apprestava a vendicare suo padre, a vendicare Massinissa, a vendicare tutti quelli che le erano stati vicini.
Con un grido di impotenza, mirò alla prima persona che vide, un uomo che indossava una semplice maglietta con su scritto: “GABBIA”.
Perché la tigre in Aysha voleva liberarsi.
SELMA SMAJIĆ
(Studentessa del II anno del Corso Triennale, Laurea combinata in italianistica e filosofia della Facoltà di Filosofia dell’Università degli Studi di Fiume)
Asilo
23 agosto 2014
Anche oggi non ho potuto dormire. Sono già passati otto giorni da quando siamo venute qui e pure niente è cambiato. Racchiusi in una stanzina rettangolare con una sola finestrella, con dentro quaranta persone, dove tutti sono appiccicati uni agli altri, io non ci resisto più. Ognuno è immerso nel proprio pensiero, si sente solo il pianto dei bambini e il ronzio delle zanzare. Non sappiamo niente, nessuno parla. Quello che ci resta da fare, è aspettare.
24 agosto 2014
Oggi per la prima volta ci hanno dato un po’ di cibo e una bottiglia d’acqua. Ero molto felice perché è da quattro giorni che la mia sorellina e io abbiamo mangiato qualcosa. Inoltre questo pomeriggio è entrata una nuova ragazza. È molto bella, ha i capelli di un castano chiaro, gli occhi azzurri a mandorla e una carnagione bianca, bianca, pare una bambola di porcellana. Probabilmente una nuova emigrata, perché non mi è capitato di vederla prima.
26 agosto 2014
Quella di ieri è stata una giornata faticosa perché ci hanno svegliati al mattino presto e ci hanno fatti mettere in fila indiana e ci hanno portati in una tenda, in mezzo alla quale c’era un tavolo dove stava seduto un uomo che pareva avere circa quarant’anni, che scriveva qualcosa al computer. Accanto a lui stavano due donne giovani, una bionda e l’altra con i capelli castani. Entrambe erano abbastanza carine, ci hanno accolto con un sorriso affettuoso. Quando le ho viste mi sono chiesta se anche io un giorno potrò essere come loro, così bella, e vivere una vita più felice. Quando hanno finito di farci un sacco di domande, (la bionda poneva le domande in una strana lingua mentre l’altra traduceva in inglese), ho deciso di andare un po’ a spasso con la mia sorellina. Mentre camminavamo per la strada ho visto Bambola. Sì ho deciso di chiamarla così perché Nazaretha, la prima volta che l’ha vista, pensava che fosse una bambola. Da quel giorno ha incominciato a chiedermi in continuazione " dove è Lola?". Quando l’ha vista le è corsa incontro puntando l’indice nella sua direzione e gridando "Lola! Lola!". Una volta arrivatale davanti si è messa a fissarla con gli occhi spalancati e con un grande sorriso stampato sul visino. Per me quello è stato un momento indimenticabile perché è da tanto tempo, più precisamente da quando siamo scappati dall’Afghanistan, che non vedevo Nazaretha comportarsi così, cioè da bambina spensierata e felice. Sembrava avesse ricevuto un bellissimo regalo. Credo che probabilmente ogni bambina di quattro anni si comporterebbe nello stesso modo. Dopo una breve chiacchieratina, siccome si faceva tardi e dovevamo ritornare nella nostra stanza, ho scoperto che la "bambola" era un’emigrata scappata con la propria famiglia dalla guerra in Siria. Si chiamava Haya e aveva quindici anni. Anche se aveva due anni più di me, credo che eravamo davvero compatibili e avevamo molte cose in comune. Tra l’altro anche lei teneva un diario ed era appassionata di pittura.
27 agosto 2014
Non vedevo l’ora di uscire dalla nostra stanza per andare fuori con Haya e Nazaretha. All’inizio abbiamo parlato un po’, poi abbiamo giocato e alla fine Haya è dovuta andare ad aiutare sua madre a fare il bucato. Nazaretha e io abbiamo deciso di continuare a giocare a nascondino finché non si è fatto tardi. Abbiamo pranzato un piatto di riso con un pezzo di pane. Poi siamo andate a dormire.
28 agosto 2014
Non riesco a chiudere occhio. Attorno a me tutti ancora dormono e io invece me ne sto con la testa appoggiata al muro e con Nazaretha tra le braccia a pensare a mia madre e a mio padre "Saranno vivi? " Dopo che ci hanno detto di scappare, non li ho visti da due mesi. Mi mancano molto. Hanno detto che verranno a trovarci, però dove sono allora? Cerco di non pensare a tutto quello che ci aspetta ancora. Adesso per la quarta e l’ultima volta, proverò ad andare a dormire, forse starò meglio.
5 settembre 2014
È da alcuni giorni che non scrivo. Non ho tempo. Le cose sono un po’ cambiate. Ci hanno affidato dei lavori da fare. Io pulisco i bagni, anche se è difficile farlo, con la mia sorellina appesa alla schiena, ma sono contenta perché ci danno più cibo. Io e Haya siamo diventate grandi amiche e ogni giorno ceniamo assieme e ognuna parla di quello che ha fatto quel giorno. Inoltre, ogni tre giorni passa un autobus che prende un gruppo di persone e le porta via. Alcuni dicono che queste persone riceveranno delle case dove potranno vivere e poi riceveranno anche un lavoro, mentre gli altri dicono che non è vero, che queste notizie sono false. Come diceva mia madre: "non sai mai cosa ti aspetta domani, ma cerca di pensare alle cose migliori".
7 settembre 2014
Oggi ci hanno detto che i bambini che sono orfani, o che sono stati abbandonati, verranno portati negli orfanotrofi. Quando ho sentito questa notizia ero così felice che ho iniziato quasi a piangere perché non ci resisto più a rimanere in questa stanza. Ci hanno detto che riceveremo nuovi vestiti, avremo finalmente un letto dove io e la mia sorellina potremo dormire, ma la cosa più bella è che riceveremo anche dei giocattoli, libri e e tutto quello che occorre per la scuola. FINALMENTE POTRÒ ANDARE A SCUOLAAA! Non vedo l’ora, mi manca tanto, sicuramente sarà difficile, però incontrerò tanti nuovi amiciiii, ci divertiremo, studieremo, faremo i compiti e poi andremo un po’ a giocare e verso sera andremo a cena tutti insieme... chi sa quanti saremo in camera? Spero che riuscirò a fare tanate amicizie. Mi mancherà molto Haya, dopo tutto questo tempo che abbiamo trascorso assieme e dopo tutte quelle chiacchiere che abbiamo fatto, è diventata per me come una sorella maggiore alla quale potevo dire tutto quello che non volevo dire agli altri. Però il problema è che non ci hanno detto ancora quando ci porteranno via da qui. Spero il più presto possibile.