Elia, Christian: Il coraggio (2019)
Forum Tomizza, 17 maggio 2019
Buongiorno a tutti. E’ davvero un piacere essere qui oggi. L’invito a partecipare alla 20^ edizione del Forum Tomizza – con tanti prestigiosi compagni di viaggio – è per me allo stesso tempo un onere e un onore. Il tema di questa edizione, il coraggio, lo ritengo non solo attuale, ma urgente.
Perché è proprio il coraggio quello che serve a tutti noi per affrontare e superare un periodo che espone le nostre società allo smarrimento.
Perché è proprio il coraggio che ci serve per ritrovare un senso di appartenenza ai principi dell’umanità, del rispetto, dei diritti.
Ho iniziato a fare il giornalista ai tempi del liceo, c’era ancora il muro di Berlino. Mi sono innamorato di questo mestiere da subito, ma oggi – a volte – cerco il coraggio di amarlo ancora, come in una lunga relazione che deve ogni mattina trovare la forza di non arrendersi alla normalizzazione.
Prima di tutto una doverosa premessa: il mio intervento riflette sul giornalismo italiano, il mio, quello che conosco e frequento da vent’anni. Il mio intervento riflette la mia opinione, che come tutte le opinioni non ha alcuna ambizione di esaustività o esclusività.
Ieri, in Italia, è stata una giornata importante. I magistrati che indagavano sulle organizzazioni non governative che operano nel mar Mediterraneo hanno certificato di non avere alcuna prova per sostenere quello che, da subito, era apparso un teorema senza alcuna aderenza con la realtà.
Da ieri è ufficiale: le ong non sono ‘taxi del mare’ per i disperati della sponda meridionale del Mediterraneo; le ong non hanno legami con i trafficanti di uomini; le ong non lucrano sui viaggi della morte. Un’evidente banalità, direte voi, ma nell’Italia di oggi non è così.
Sarebbe troppo comodo immaginare che lo stato attuale delle cose sia un imprevisto, improvviso, evento drammatico che, come un temporale estivo, scatenerà la sua forza distruttrice e svanirà in un dolce arcobaleno. La situazione attuale è la fase acuta di un processo che è iniziato tempo fa.
Nel 2009, mentre raccontavo la guerra a Gaza, un ex membro delle forze speciali dell’esercito israeliano, rispetto alla mia domanda su come si narcotizzasse una società civile, mi rispondeva che basta “spostare la soglia della morale, ogni giorno, un po’ più in là. Se quello che fai oggi è peggio di quello che hai fatto ieri e se domani farai qualcosa di peggio di quello che hai fatto oggi, lentamente, quel che hai fatto prima si normalizza”.
Quando il governo Netanyahu o il governo Orban hanno iniziato la loro ‘caccia alle streghe’ contro le organizzazioni non governative, non avrei mai pensato che lo stesso potesse un giorno accadere anche in Italia. Invece è stato così.
Questo mestiere, in giro per il mondo, mi ha insegnato che quello che raccontavo, che a prima vista sembrava così lontano dalla mia vita, in realtà mi dava solo un punto di osservazione privilegiato sul futuro. Anche sul mio futuro.
E quel processo, oggi, riguarda come sia stato possibile che al ceto politico venisse concesso un potere tale sulla vita delle persone. Oggi è diventato normale ritenere le migrazioni un problema di ordine pubblico. Quando è accaduto che, invece del ministero delle Politiche Sociali, il migrare diventasse una prerogativa del ministero degli Interni? Non lo ricordiamo neanche più. E in questo processo, il mondo del quale faccio parte, del quale ho scelto di far parte, ha delle grandi responsabilità.
Come giornalisti dobbiamo avere il coraggio di ammettere che, per anni, abbiamo guardato una classe dirigente – di differenti appartenenze politiche – utilizzare la questione delle migrazioni come strumento di propaganda politica. A me, nella stessa vita professionale, era già accaduto.
Era il 2001, il mondo era sconvolto da quello che in diretta tv avevamo visto accadere negli Stati Uniti. Lo ricordo perfettamente, lo ricordiamo tutti. Quel tempo divenne il tempo nel quale a noi che raccontavamo il mondo veniva chiesto ‘da che parte state?’. C’era un arruolamento in corso, con tutta la cassetta degli attrezzi della propaganda di guerra: identità, noi e loro, dio, patria e famiglia. In tanti, senza alcun coraggio particolare, non abbiamo ceduto. Perché nel fare bene il proprio lavoro, non c’è coraggio, ma solo dignità. E allora mai dimenticare che il nostro mestiere è quello di ricordare a noi stessi e a tutti gli altri che non esistono poteri buoni. Siamo coltivatori di dubbi, non spacciatori di certezze. Ed ecco che ogni processo politico che si nutre di discorsi identitari è sempre stato e deve restare nemico del buon giornalismo. Il buon giornalismo deve essere, sempre, in direzione ostinata e contraria. Forse, però, all’epoca era più facile.
Perché c’era una comunità di lettori forte e numerosa, che rendeva i media più liberi di non dipendere da questo o da quel potere. Perché c’era una società civile che – a milioni – scendeva nelle piazze e nelle strade per gridare “non crediamo alle vostre bugie”.
Anche all’epoca sono stati fatti degli errori, tanti, in tante occasioni è stato violato il patto di fiducia con i lettori. Ma nella stragrande maggioranza dei casi, è stato fatto un buon lavoro.
Da allora, ad oggi, in questi lunghi venti anni, sono cambiate tante cose. La crisi economica, prima di tutto, ha reso i media sempre più fragili ed esposti alle pressioni del potere, economico o politico che sia. Sarebbe necessario, come tempo fa, trovare imprenditori che abbiano il coraggio di essere veri editori e non meri ragionieri che fanno quadrare gli scarsi conti. Il crollo della pubblicità e delle vendite è una realtà, ma non basta a spiegare – almeno in Italia – il crollo della qualità dei contenuti.
L’irruzione dei social media ha reso il nostro ruolo difficile, complesso. L’arrivo dell’auto racconto ha destabilizzato un mondo che era abituato a raccontare. L’oggetto del racconto rivendica il suo diritto a farsi soggetto del racconto. Ma non si tratta solo di una crisi economica e di strumenti, perché queste sono fasi che ci sono state prima e ci saranno dopo.
Si è trattata di una grave crisi di fiducia.
Ecco che è il tempo di pensare, con coraggio, a un nuovo patto sociale tra giornalisti e società civile. Un nuovo patto sociale che parta dal coraggio, ad esempio, di chiamare le cose con il loro nome e di lavorare a indicare le cause dei processi, non a strumentalizzarne gli effetti.
Società senza migrazioni, semplicemente, non sono mai esistite. Non esiste alcuna invasione. Chi scappa oggi da una guerra, ieri ha accolto altre fughe; chi scappa dalla povertà e dalla fame, ha lo stesso diritto a sognare una vita differente. Nessun racconto di questo tempo ha un senso, se non è messo sempre in chiaro il ‘sistema della guerra’, un circolo vizioso che parte da un modello economico e diventa un modello di sfruttamento.
Un nuovo patto sociale con i lettori non potrà che passare dal coraggio di riprendersi le parole:
sicurezza, sviluppo, giustizia, terrorismo, razzismo. Noi giornalisti, senza le parole, siamo muti.
Come Tomizza, dobbiamo abitare sempre e comunque la terra di mezzo, rifiutare ogni semplificazione, essere capaci di rendere comprensibili le dinamiche globali, non cedendo mai alla comodità della lettura comune. Non scriviamo per piacere, ma per informare, per dare strumenti di cittadinanza attiva.
Per anni, in Italia e non solo, si è invece lavorato a sopravvivere. Immaginando che blandendo il potere, assecondandone le assordanti propagande, avremmo tenuto vivo un lavoro che rischiava di scomparire. Solo che l’effetto è stato contrario. E alla fine rischiamo di credere di aver salvato qualcosa che non esiste più.
Con ogni titolo che criminalizza una comunità intera, con ogni articolo che cede all’orientalismo, con ogni narrazione vicina agli imprenditori della paura abbiamo contribuito – giorno dopo giorno – a perdere la fiducia di coloro che hanno gli strumenti per capire l’inganno e a dare nuovi strumenti a coloro che su quell’inganno hanno costruito una carriera politica.
La criminalizzazione della solidarietà è solo l’ultima stazione di un lungo viaggio nella disumanizzazione degli ultimi. Non ci sono nomi, ci sono numeri. Non ci sono storie, ci sono categorie: migrante economico, rifugiato, richiedente asilo. Non ci sono centri per migranti in Libia, sono lager. E dopo aver disumanizzato le vittime, dopo averle rese tutte uguali e averne messo in dubbio le motivazioni e i diritti, ecco che vanno cancellati i testimoni: le ong.
Dobbiamo avere il coraggio di tornare a raccontare le persone. Un passaggio epocale, dalla geopolitica alla geopoetica, che riporti il nostro sguardo – e quindi quello del lettore – a guardare negli occhi le storie, dargli un nome, senza un approccio dall’alto verso il basso (con gli ultimi) e dal basso verso l’alto (con il potere). Le parole che ci siamo fatti rubare, dobbiamo avere il coraggio di riprendercele. Lasciare uomini, donne e bambini – per giorni – alla deriva, non è politica, è un crimine. Lasciare sulla Grecia la responsabilità di milioni di vite, in cambio di un pugno di euro, è un ricatto. Respingere esseri umani verso la Libia e l’Afghanistan, definiti paesi sicuri, è una violazione dei diritti umani, non è un accordo internazionale. Pagare la Turchia, che viola i diritti dei suoi stessi cittadini, per fare il lavoro sporco, non è una soluzione, ma una vergogna.
Dobbiamo metterci in gioco, sperimentando tutti i linguaggi possibili, senza fermarci – immobili – a un solo modo di raccontare mentre tutto cambia. Rileggere oggi i libri di Tomizza è una palestra eccezionale di una forma elevatissima di reportage letterario, dove l’analisi del reale si faceva letteratura perché sapeva cogliere, negli ultimi, il senso delle cose, sapeva trovare nelle storie delle persone, il senso del globale. E dobbiamo provare a sperimentare sempre, linguaggi e zone di confine, umane e narrative.
Spesso mi chiedono se ho paura di raccontare la guerra e le violazioni dei diritti umani. Certo che ho paura, ma il mio lavoro è una scelta. Quando puoi scegliere, è facile avere coraggio. Il vero coraggio è quello di Daphne Caruana Galizia e di Ján Kuciak, che hanno pagato con la vita le loro domande, il vero coraggio è quello di Florence Hartmann, che ha inseguito fin dentro un carcere la sua idea di verità, è quello di Boris Dežulovic, che ha rispedito al mittente la chiamata alle armi del nazionalismo.
Il vero coraggio è quello dei miei colleghi come Bilal, a Kabul, che ogni giorno resta al suo posto, anche quando quelli come me vanno via, come Alaa, che era con me a piazza Tahrir, ma che per quello è andato in carcere, come Ahmed, che il giornalista lo faceva a Gaza e raccontava i bombardamenti che lo hanno ucciso.
Il coraggio che dobbiamo avere oggi è quello di riprenderci le parole, riprenderci la fiducia del pubblico. Il vero coraggio, oggi, è quello dei freelance, che spesso a spese loro e senza nessuna protezione continuano a credere in questo mestiere.
Il coraggio che dobbiamo avere oggi è quello della dignità. Perché, prima o poi, dovremo rendere conto. Albert Camus diceva che il giornalista è lo storico del presente. Ecco, qualcuno ci chiederà dove eravamo quando oltre 34mila persone annegavano per aver osato sognare; qualcuno ci chiederà dove eravamo mentre si strappavano persone alle loro nuove vite per rispedirli all’inferno; qualcuno ci chiederà dove eravamo mentre bloccavamo con il filo spinato e i muri le persone che fuggivano dalle guerre che foraggiavamo di armi noi stessi.
In fondo, alla fine, si tratta di ritrovare il coraggio di guardarsi allo specchio.
Grazie della vostra attenzione.