Lusa, Stefano: “…e dopo xe rivadi i druxi”! (2022)
FORUM TOMIZZA 2022
CONVEGNO CAOS KAIROS
PALAZZO PRETORIO, Capodistria
Stefano Lusa
“…e dopo xe rivadi i druxi”!
“Gesù mio misericordia! – Maggio 1945”, questa è l’iscrizione sotto una serie di icone in una delle vie che dalla periferia portano verso Piazza del “Duomo” a Capodistria. È una delle immagini iconiche che plasticamente rappresenta i sentimenti dell’epoca nella comunità italiana residente in città. Quella targa venne affissa dal padre di uno degli ultimi sacerdoti italiani di Capodistria, che se ne andò, come fece gran parte della comunità italiana, nella prima metà degli anni Cinquanta.
Prima di parlare delle faccende che riguardano il nostro passato va recente meglio fare, a scanso di equivoci, qualche precisazione. Dal punto di vista personale ritengo che l’unica scelta possibile fosse quella della Resistenza e dell’antifascismo, mentre il fascismo ed il collaborazionismo non ha nessuna giustificazione. A livello famigliare uno dei miei nonni è stato ucciso nel corso di un rastrellamento dai nazisti, mentre l’altro aveva nei suoi cassetti una serie di onorificenze jugoslave. Spostando l’orizzonte un po’ più in là un nonno di mia moglie partecipò alla liberazione di Alba e si intrufolò vestito da tedesco in una prigione per liberare alcuni suoi compagni, evitando così loro il patibolo o nel migliore dei casi la deportazione in Germania. Un’altra nonna di mia moglie, invece, fu una delle poche della sua generazione, a Torino, non essere iscritta nelle Figlie della Lupa. Suo padre aveva preferito arrabattarsi per decenni con lavoretti in nero pur di non iscriversi al Partito Fascista. In Italia sono stati molti a fare i conti con il fascismo, anche a livello personale.
Prima a Trieste e poi ha Torino ho avuto la fortuna di studiare con professori che hanno prodotto metri e metri di volumi che hanno preso in esame quel periodo. In tutti quei libri difficilmente si potrebbe trovare una sola riga in cui si giustifichi il regime e le sue brutture. Certo, magari si dovrebbe prendere maggiormente coscienza delle nefandezze del fascismo, ma tutto sommato si può affermare con sicurezza che gli italiani e la Repubblica nata dalla Resistenza si sono confrontati molto più seriamente e serenamente con le proprie colpe di quanto si sia fatto in Slovenia e in tutta l’area dell’ex Jugoslavia per quanto riguarda le malefatte del regime comunista.
Ma torniamo a Capodistria e al maggio del 1945. In quel periodo quello che si manifestò, in tutta la regione, fu una vera e propria rottura con il passato, che portò alla progressiva trasformazione di cittadine venete e italiane, come Capodistria, Isola e Pirano, in città jugoslave e slovene. In poco più di un decennio si realizzò progressivamente il progetto di rafforzare progressivamente ed inesorabilmente la loro jugoslavità e slovenità per farle diventare quello che oggi sono: Koper, Izola e Piran. La direttiva impartita era semplice e diceva di “pulire” immediatamente in base al fascismo e non sulla base della nazionalità. Il problema, però, è che negli anni che seguirono la categoria “fascisti” o comunque nemici del popolo era molto estesa e per finirci dentro bastava non volere l’annessione dell’Istria alla Jugoslavia o non credere nella variante del comunismo di Tito.
Per fare un esempio, basti pensare alla figura di Antonio Sema. Il convinto antifascista piranese, negli anni del regime venne brutalmente perseguitato ed esposto al pubblico ludibrio. Lo stimato maestro, con l’avvento del potere popolare, poté realizzare il suo sogno e fondare nella cittadina un ginnasio, per dare a contadini e pescatori della sua città una prospettiva di istruzione e di avanzamento sociale. Non gli ci volle molto per entrare in contrasto con le autorità jugoslave, così perse la sua cattedra di preside, fu costretto a lasciare la scuola e tornò a fare il pescatore prima di prendere la via dell’esodo con quasi tutti gli altri piranesi.
In quel periodo vennero chiamati a prendere le redini della comunità italiana molti “compagni” provenienti dalle altre regioni italiane. Erano venuti a costruire il comunismo, ma - alcuni di loro - anche a trovare riparo dalla giustizia italiana. Sulla loro testa piovvero pesanti condanne in contumacia per quello di poco nobile che avevano fatto durante la Resistenza. In Jugoslavia trovarono un rifugio sicuro, ma furono anche ostaggi del regime e contribuirono a non far restare gli italiani del luogo a casa loro.
I primi ad andarsene furono i maestri, i preti e tutti coloro che in qualche modo potevano essere portatori di valori non consoni a quello che era il nuovo sistema politico. Nelle cittadine costiere cambiarono i ritmi di vita. Il passare del tempo, scandito dal susseguirsi delle feste religiose, venne sostituito da nuovi rituali di regime, mentre le processioni e le altre manifestazioni pubbliche religiose vennero fatte cessare, anche con lanci di pomodori e uova marcie. In sintesi, furono progressivamente create le condizioni acciocché gli italiani “decidessero democraticamente” di andarsene. Una scelta “libera”, si sente dire spesso; com’è stata “libera” la scelta di mio zio Mario, mitico calciatore dell’Ampelea di Isola, che per rimanere nella sua città rifiutò anche offerte di società più importanti. L’Ampelea, per i suoi meriti sportivi, gli aveva dato una bella casetta a schiera all’ingresso di Isola. Anche dopo il 1945 la sua vita trascorreva serena tra la fabbrica, il campo di pallone e gli impegni familiari. Decise di andarsene quando suonò alla sua porta un poliziotto stiriano con in mano un decreto che gli imponeva di cedergli una stanza di casa sua. Si ricostruì una vita altrove partendo dalle baracche di uno dei tanti campi profughi.
Quelli che rimasero non furono altro una reliquia di quella che fu l’italianità di questa terra. Persone semplici, poco istruite e soprattutto non pericolose per il regime. Alcuni si riunirono intorno a quelli che erano i circoli di cultura italiani: istituzioni create su modello di quanto accadeva nel resto della Jugoslavia, che avevano lo scopo di promuovere la cultura dal basso, quella che sostenere i valori della classe operaia. Una nuova forma di cultura organica al regime, non pericolosa e ben distante da espressioni d’arte borghesi che si volevano relegare ai margini, anche perché considerate portatrici di nazionalismo e di idee contrarie alla costruzione della “patria socialista”. Cori, mandolini, filodrammatiche e tutta una altra serie di attività amatoriali divennero da allora (e sono ancora) il trademark di una comunità che non sa (e non vuole) uscire da una dimensione fatta di piccole cose legate perlopiù al folclore ed al dialetto. Un'altra parte della comunità che rimase, invece continuò a vivere in Italia anche senza l’Italia. Era formata perlopiù da donne che erano rimaste per accudire i genitori anziani o da vedove non ebbero la forza di andare da sole incontro all’ignoto. Quelle che io ho conosciuto si incontravano ogni mattina in Piazza delle Erbe per fare la spesa. Si passavano i pochi rotocalchi italiani che riuscivano a far arrivare dall’altra parte del confine, commentavano i programmi della TV italiana e ricordavano soprattutto quella che era stata la Pirano della loro giovinezza: il negozio dove avevano comprato il vestito per la prima comunione, le caramelle della signora Ceceri, il pane del negozio di Mario… Erano assolutamente indifferenti al regime ed ai suoi nuovi cerimoniali. Continuavano a frequentare la chiesa ed a vivere come avevano sempre fatto. Si guardavano bene dall’esprimere opinioni politiche, anche se quando si faceva tardi ed oramai era ora di andare a casa per sbrigare le faccende domestiche il loro discorso si chiudeva sempre nello stesso modo: “…e dopo xe rivadi i druxi”. Una di quelle signore, morta agli inizi del 2000, come ultimo desiderio ebbe quello di far mettere sotto il cuscino nella sua bara, la bandiera italiana tolta dal comune e gelosamente custodita per anni tra i cimeli di casa sua.
Naturalmente il regime sentì la necessità di preservare con un ordinamento “fantastico” quello che restava di questa comunità. Non misure individuali, che sarebbero state poco consone alla dottrina comunista, ma una ampia tutela collettiva. Il simbolo di tutto ciò fu soprattutto il bilinguismo visivo. Enormi cartelli con su scritto Koper – Capodistira, Izola- Isola, Piran – Pirano, capeggiano ancor oggi davanti alle nostre città. Una manifestazione che, sentendo i discorsi che si continuano a fare ancor oggi, sembra più una messa in scena per chiedere uguali diritti anche per la minoranza slovena rimasta in Italia (dove nessuno o quasi scelse la via dell’esodo), che dettata da una reale volontà di conservare quel poco di italiano che era rimasto. Quei cartelli bilingui, del resto, a volte suonano come vere e proprie beffe per la comunità italiana, a cui viene comunque negato il diritto di poter usare i propri nomi storici sul territorio ed è costretta (anche a causa del inettitudine della propria classe dirigente) a tenersi quelli reinventati negli anni cinquanta e sessanta (Lucia, Monte Marco, Colombano, Jagodje…). Così, ad esempio, mentre in Italia la località di San Dorligo della Valle è oramai per tutti tornata ad essere solo ed esclusivamente Dolina (senza che questo suscitasse grandi discussioni o accese polemiche) a Pirano si fa di tutto per negare agli italiani di poter usare il toponimo Santa Lucia.
Quello che resta oggi è ben poco. La comunità italiana, piena com’è di diritti esistenti solo sulla carta è oramai relegata ad una sola, quasi inutile, presenza istituzionale. Il mantra assimilato oramai negli anni è quello che i diritti ci sono, ma che non bisogna abusarne. Quello a cui bisogna fare attenzione è soprattutto non irritare la maggioranza. In sintesi, il complesso meccanismo di tutela non ha fatto che relegare gli italiani in un magico mondo autoreferenziale in cui non riescono a confrontarsi con il resto della società. Bisogna ribadire che, come ho già detto, la realtà degli italiani rimasti in Jugoslavia e in Slovenia era fatta da persone semplici, poco istruite e non pericolose per il regime e questo background pesa anche sui loro figli e nipoti. In questo ambiente ogni processo si di empowerment del gruppo diventa maledettamente complicato e forse impossibile.
Del resto, quello a cui si è assistito dal 1945 in poi, è stato un processo di slovenizzazione del territorio che è stato portato avanti con coerenza, maestria e costanza. Una operazione iniziata con i trasferimenti forzati degli alunni dalle scuole italiane alle scuole slovene e proseguito con una serie di pressioni psicologiche, dirette ed indirette che le autorità mettevano in pratica in vari modi. Mio papà Vittorio si ritrovò una carta d’identità con su scritto Zmagoslav. Per farsela cambiare dovette portare un certificato di battesimo e ripagarsi il modulo, lo stesso accadde a mia nonna Lucia, che all’inizio degli anni Ottanta si ritrovò sul lasciapassare il suo nome cambiato in Lucija. Lei non fece a tempo a farsi rifare il documento, perché morì prima. Meccanismi non molto dissimili da quelli adoperati da altri regimi, in altre epoche.
Chi ha vissuto in queste terre e sa cos’è stato il fascismo di frontiera. Il suo fine era quello di italianizzare terre che italiane non erano o almeno non erano solo italiane. È stato una delle peggiori e più violente espressioni del fascismo. Esiste però anche un antifascismo di frontiera, che con il fascismo di frontiera, senza voler fare indebiti paragoni, ha almeno un tratto comune: il nazionalismo.
Per concludere e per tornare al messaggio che ci hanno regalato Fulvio Tomizza e il nostro pigmalione Milan Rakovac: per convivere con i nostri traumi di frontiera, per cominciare a superarli e a guardare al futuro, dovremmo soprattutto smettere di guardare alle colpe degli altri e prendere coscienza delle nostre responsabilità. Solo così si potrà affrontare serenamente la vita, guardando al domani e superando un passato che qui non sembra voler passare mai.