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Rolandi, Francesca: Post verità e migrazioni tra passato e presente a cavallo dell'Adriatico (2017.)

 

Abbiamo sentito parlare molto in questi giorni di post-verità, di bugie, di menzogne e credo che possiamo essere tutti d'accordo sul fatto che uno dei principali ambiti in cui operano le distorsioni della realtà sia il discorso pubblico sulle migrazioni e sui profughi. Di recente, Nando Sigona della School of Social Policy dell'Università di Birmingham ha messo in luce come in Italia il discorso pubblico sulle migrazioni sia caratterizzato da una vera e propria resistenza ad accettare i fatti; se per esempio una ricerca presenta una stima del contributo degli immigrati al PIL italiano, questo dato non viene recepito, se non marginalmente.  Sigona sottolinea anche come uno degli ostacoli principali rispetto alla comprensione del fenomeno migratorio sia rappresentato dal fatto che spesso i media riportino titoli sensazionalisti a caratteri cubitali, che magari poi vengono in parte rettificati all'interno dell'articolo, ma questo ridimensionamento passa in genere inosservato (https://www.cartadiroma.org/news/in-evidenza/post-verita/). Si tratta di un meccanismo che è possibile rintracciare anche nel passato ma che è ancora più dannoso oggi. In particolare il fatto che molte persone si informino attraverso il proprio muro di Facebook ha un'enorme portata quanto a semplificazioni.


In questo breve viaggio ci concentreremo sull'area adriatica, presentando per frammenti il discorso pubblico sui richiedenti asilo sia durante la guerra fredda nell'Italia della Prima Repubblica e nella Jugoslavia socialista che nella contemporaneità, nell'Italia di oggi e nei paesi dell'area post-jugoslava. Credo sia importante sottolineare la continuità perché, sebbene oggi i flussi migratori siano un tema centrale, raramente li si approccia a partire da una prospettiva storica.


Durante la guerra fredda, i flussi migratori europei sono stati essenzialmente dall'Est all'Ovest. Si trattava di individui che scappavano dai paesi socialisti per raggiungere il blocco occidentale, compiendo una scelta tra due sistemi politici. L'atteggiamento dominante nel discorso pubblico occidentale era di empatia con i profughi, il che segna una differenza profonda rispetto alla situazione odierna. In particolare nel "mondo libero" veniva considerato un dovere morale offrire asilo a coloro che, scappando dal blocco sovietico, rappresentavano l'impersonificazione delle vittime del comunismo.


Chi violava le leggi per aiutare i profughi a fuggire, attraverso vari stratagemmi, era considerato un eroe, a differenza di oggi in cui assistiamo a una criminalizzazione crescente di coloro che aiutano i profughi. È però importante sottolineare che si trattava delle leggi dei paesi di origine dei profughi in quanto erano questi ultimi a limitare la libertà di circolazione dei propri cittadini. In generale in Europa occidentale il discorso pubblico sui richiedenti asilo provenienti dal blocco sovietico era caratterizzato da una retorica umanitaria, soprattutto quando i numeri erano bassi e i profughi provenivano dalla classe media.


Sebbene se ne sia persa memoria l'Italia sin dalla fine della seconda guerra mondiale è stata un luogo di transito di un'umanità variegata in fuga o in cammino. Nel 1954 Roma ratificò la Convenzione relativa allo status dei rifugiati e si dotò di un sistema dell'asilo per accogliere migliaia di fuggiaschi che arrivavano ogni anno ai suoi confini orientali. Nel primo decennio (fino al 1965) i richiedenti asilo provenivano in maggioranza dalla Jugoslavia e nel regime internazionale erano considerati "profughi a metà". Infatti, erano esclusi da alcuni programmi di ricollocamento e molti stati li consideravano migranti prevalentemente economici, provenienti da un paese, la Jugoslavia, che appariva più liberale degli altri paesi socialisti e nel quale le pene per l'espatrio illegale si stavano gradualmente ammorbidendo. Inoltre, la Jugoslavia aveva una posizione politica autonoma rispetto al blocco sovietico e non si voleva delegittimarla più di tanto offrendo asilo ai suoi cittadini, perché non bisogna dimenticare che offrire asilo significava sottolineare la natura anti-democratica del paese dal quale i profughi provenivano.


Tuttavia, l'Italia fu particolarmente generosa nell'accoglienza a profughi jugoslavi, anche su pressione della Chiesa cattolica e della Democrazia Cristiana al potere. Ciò avvenne da una parte in accordo a principi umanitari, dall'altra come una forma di pressione in chiave anti-jugoslava. Va inoltre ricordato che, anche in base agli accordi internazionali, l'Italia, ancora afflitta da un alto tasso di disoccupazione ed essa stessa paese di emigrazione, si impegnava ad essere esclusivamente un paese di transito per i richiedenti asilo stranieri, prima che questi emigrassero oltreoceano (soprattutto in Australia) oppure verso il Nord Europa. Ciò faceva sì che i profughi stranieri non entrassero in competizione con la forza lavoro italiana durante la loro permanenza nel paese. Tuttavia, all'interno di un discorso pubblico genericamente improntato all'accoglienza, si verificavano periodicamente fenomeni di intolleranza da parte della popolazione locale, specie nei luoghi in cui la presenza dei profughi diventava più consistente.


E proprio in questi casi, quando la stampa italiana dava risalto al fenomeno dei profughi stranieri, era possibile incontrare una narrazione fortemente razzista e colma di stereotipi antislavi, che si riallacciavano a pregiudizi con radici storiche di lungo periodo. Molto spazio veniva dedicato a episodi - anche marginali - di disturbo alla quiete pubblica, a partire dai quali veniva creato lo stereotipo del "profugo balcanico", un'immagine di completa alterità, quasi un archetipo della violenza. È interessante sottolineare che in genere quando il profugo veniva definito "balcanico", si voleva sottolineare implicitamente la sua non integrabilità e perorare un quanto più veloce ricollocamento. Per fare solo uno dei molti possibili esempi, nel 1952 il Giornale di Trieste - nome con il quale all'epoca usciva il quotidiano triestino Il Piccolo - titolava "Il bubbone dei profughi balcanici continua a infettare la nostra città", un articolo nel quale si sottolineava che a Trieste "approdano tutti i rottami della vecchia Europa danubiana" ( Archivio presidenza del consiglio dei ministri, fondo Ufficio Zone di Confine, sez. II, FVG Trieste, b. 55, vol. III).


Il fenomeno dei richiedenti asilo jugoslavi in Italia era seguito ovviamente con estrema attenzione in Jugoslavia, dove la stampa faceva da megafono alla linea ufficiale di considerare tutti coloro che lasciavano il paese illegalmente (e legalmente era molto difficile farlo fino alla prima metà degli anni '60) come nemici dello stato e prede dell'emigrazione politica antijugoslava. Nonostante ciò, diverse migliaia di cittadini jugoslavi, in gran parte giovanissimi, lasciavano ogni anno la Jugoslavia e divenne necessario tentare di dissuaderli. A questo scopo voleva ovviare la pubblicazione di articoli che descrivevano a tinte fosche la permanenza degli jugoslavi nei campi profughi, come una condizione di schiavitù, nella quale si materializzavano le peggiori depravazioni e i peggiori incubi che la società jugoslava dell'epoca potesse immaginare. A questo riguardo, nel luglio 1959, il popolare settimanale Vjesnik u srijedu titolava "Bijelo roblje u San Sabbu", facendo riferimento al campo per profughi stranieri di Trieste (R. Mahić, "Bijelo roblje u San Sabbu", br. 374, 1/7/1959, p. 6.). L'articolo presentava una condizione drammatica in cui le profughe si sarebbero trovate davanti alla scelta se vendersi ai propri connazionali o alle guardie italiane. Sebbene, come emerge dalla documentazione sia italiana che jugoslava dell'epoca, esistano degli episodi di marginalità sociale, il quadro non appare verosimile nelle dimensioni descritte nell'articolo, che si distingue per la sua intenzione di demonizzare la figura dell'emigrante all'estero. In quegli anni emigrare illegalmente all'estero significava ancora recidere i legami con la società jugoslava per andare incontro alla "perdizione".


Tuttavia, all'inizio degli anni '60 la Jugoslavia liberalizzò, unico paese socialista a farlo, le migrazioni economiche, permettendo ai propri cittadini di lavorare all'estero. Si trattava di una svolta a 180° nelle politiche migratorie che si riflesse immediatamente sull'atteggiamento della stampa nei confronti di coloro che andavano a lavorare all'estero. Costoro, anziché "emigranti", un termine che portava con sé un'accezione negativa, iniziarono a essere denominati "lavoratori temporaneamente impiegati all'estero", una definizione che insisteva sul fatto che rimanessero parte della società jugoslava anche durante la loro permanenza all'estero. I media ne costruirono gradualmente un'immagine positiva, considerandoli come rappresentanti del loro paese all'estero e motivando ideologicamente la decisione di aprire le frontiere con la necessità di prendere parte al mercato del lavoro internazionale. L'apertura delle frontiere ridusse ai minimi termini nei decenni successivi il fenomeno dei richiedenti asilo jugoslavi.


Tuttavia, proprio negli stessi anni, la Jugoslavia si trasformava in un paese di transito per diverse migliaia di individui provenienti dai paesi dell'Europa orientale che la attraversavano per poi entrare in Italia, dove aspettavano che si materializzasse l'opportunità di raggiungere i paesi di ricollocamento. In particolare negli anni '80 divenne consistente il flusso di cittadini romeni. La Jugoslavia era stata l'unico paese socialista a firmare la Convenzione sui profughi del 1954 ma mantenne sempre un atteggiamento ambiguo verso i richiedenti asilo provenienti dal blocco orientale, cercando di non esporsi troppo e di non danneggiare le relazione politiche con i paesi confinanti, in particolare la Romania. Nei rari articoli sul fenomeno che comparvero sulla stampa traspariva una sorta di insofferenza verso i fuggiaschi. Per esempio un articolo di Panorama, il bisettimanale italiano di Fiume, titolava nel 1985 "Clandestini senza patria anche in Jugoslavia" un articolo in cui compariva per la prima volta il termine "clandestini", destinato a un lungo uso, che implicava un alone di illegalità, illegittimità e privazione dei diritti (Marko Lopušina, "Clandestini senza patria anche in Jugoslavia", n. 15, 16-31/8/1985, p. 7.).


Mentre durante gli anni '80 il flusso di profughi provenienti dal blocco sovietico aumentò esponenzialmente verso l'Austria e la Germania federale, i numeri di coloro che raggiungevano l'Italia attraverso la Jugoslavia rimasero bassi, attestandosi su alcune migliaia all'anno. In tutto, poco più di 120.000 cittadini stranieri fecero richiesta di asilo in Italia dal 1954 al 1989 e nella quasi totalità lasciarono il paese. Sono effettivamente numeri risibili rispetto a quelli di oggi.


La prima volta che l'Italia si scontrò con un flusso di grosse proporzioni fu nella primavera del 1991, quando iniziarono gli sbarchi dall'Albania sulla costa pugliese. In particolare, dal 7 marzo in pochissime ore sbarcarono oltre 27.000 profughi.  Gli albanesi, che oggi sono sicuramente una delle comunità straniere meglio integrate nel tessuto italiano, vennero percepiti come la personificazione dell'alterità: arrivavano da un paese al collasso, che era stato isolato per mezzo secolo, erano spossati dalla traversata e dal caldo, sembrano davvero provenire da un altro mondo. E i media contribuirono a costruire questa immagine "ferina" dei profughi che fomentava attivamente le paure della popolazione italiana. Per esempio l'8 marzo 1991 il Corriere della Sera riportava in apertura "Diecimila profughi all'assalto" e sulla colonna sinistra un editoriale di Giuliano Zincone dal titolo "Mamma gli albanesi". Nei diversi articoli del maggior quotidiano italiano ritornava ciclicamente l'espressione "un esodo biblico" e si insisteva sull'idea di un'invasione, contribuendo con una titolazione ad effetto alla creazione delle paure, anche se di per sé l'editoriale si schierava entro certi limiti a favore dell'accoglienza.


Oggi assistiamo a un'amplificazione del fenomeno della post-verità, in particolare per il flusso incontrollato di informazioni non verificate attraverso diversi siti e sui social network, dove cadono le barriere tra la responsabilità di chi informa e il lettore e dove il linguaggio dell'odio è estremamente frequente. Tuttavia capita che anche la stampa tradizionale offra un'immagine fuorviante. Nel 2014 il "Corriere della Sera" titolava "Migranti, il Viminale conferma: In 800.000 pronti a partire dall'Africa" (http://www.corriere.it/cronache/14_aprile_29/immigrati-viminale-conferma-800mila-pronti-partire-dall-africa-dfaecf60-cf96-11e3-bf7e-201ea72c5359.shtml). Nel 2015 il "Corriere Adriatico" rincarava la dose: "Migranti, pm Scalia: un milione pronti a partire per la Libia" (http://www.corriereadriatico.it/primopiano/cronaca/migranti_pm_scalia_un_milione_pronti_partire_libia-988183.html).  Se però guardiamo ai numeri reali degli sbarchi nel 2014 e nel 2015 questi sono stati rispettivamente 153.842 nel 2014 e 170.100 nel 2015, numeri molto inferiori quindi rispetto a quelli annunciati. Però il continuo ripetere sui media di previsioni azzardate fa sì che queste cifre vengano assimilate dai lettori e si sovrappongano e sostituiscano a quelle effettive, amplificando grandemente la percezione del fenomeno migratorio in termini numerici. E non è possibile fornire una rassegna sul rapporto tra post verità e migrazioni senza citare la recente campagna contro le ong in Italia che, partendo da alcune dichiarazioni volutamente ambigue di Frontex e del procuratore di Catania, hanno reso noto il fatto che si stesse indagando su collusioni tra i trafficanti e le ong che si occupano dei salvataggi in mare. Queste collusioni sono state poi definite dallo stesso procuratore di Catania come "ipotesi di lavoro" e non hanno condotto a nessun capo di accusa ma il fatto stesso che se ne sia parlato ha portato a un atteggiamento diffuso di criminalizzazione dell'intera galassia delle ong che si occupa dei salvatggi in mare. Così, per esempio, il quotidiano Libero titolava alcune settimane fa "Immigrazione clandestina, indagata la prima ong" (http://www.liberoquotidiano.it/news/italia/12374578/immigrazione-clandestina-indagata-la-prima-ong-.html) , senza menzionare il nome della ong indagata - quindi facendo ricadere l'ombra su tutte - e sottointendendo che si trattava della prima di una serie di indagini.


Il fenomeno della post-verità non è meno rilevante sull'altra sponda dell'Adriatico, in Slovenia e in Croazia, nel discorso pubblico sulle migrazioni, in particolare in seguito all'apertura della rotta balcanica, quando per la prima volta i due paesi si sono confrontati con un flusso di grandi dimensioni. Nel novembre 2015 il settimanale sloveno Demokracijia titolava "Skandalozno: Načrtovana invazija Slovenije! Video v arabščini ki vabi u Republiko Slovenijo" [Scandaloso: Pianificata un'invasione della Slovenia! Un video in arabo che invita nella Repubblica di Slovenia]. L'intero articolo era costruito sulla base di un video disponibile su Youtube che spiegava le procedure su come richiedere l'asilo in Slovenia. Il video, del quale non si sa nulla, non rappresenta alcuna notizia, ma viene usato come base in un articolo per raccontare un surreale piano di invasione araba della Slovenia. Ancora nel marzo 2016, alla vigilia della chiusura della rotta balcanica, il quotidiano croato Slobodna Dalmacija titolava "Izbjeglice i terorizam ugrozile sezonu u Hrvatskoj: svi očekujemo spasonosne eure, ali travanj, svibanj i lipanj trenutno su prazni!" [Profughi e terrorismo minacciano la stagione turistica in Croazia: tutti ci aspettiamo gli euro salvatori, ma aprile, maggio e giugno sono vuoti]. (http://www.slobodnadalmacija.hr/novosti/biznis/clanak/id/305686/izbjeglice-i-terorizam-ugrozile-sezonu-u-hrvatskoj-svi-ocekujemo-spasonosne-eure-ali-travanj-svibanj-i-lipanj-trenutno-su-prazni) Quindi ancora una volta si offre una previsione azzardata che poi si rivelerà del tutto errata - sappiamo tutti che la stagione turistica è stata da record in Croazia - ma che assume una sua consistenza a forza di ripeterla.


Gli esempi che si potrebbero fare sono molti, io qui volgo al termine in questo viaggio nella relazione tra post-verità e migrazione, sottolineando che questo binomio è sempre esistito proprio per l'alone di non conoscenza che spesso circonda il fenomeno migratorio e per il peso che in questo ambito hanno le parole stesse nell'implicare una classificazione. Infatti, l'uso di diversi termini come "profugo", "immigrato" o "clandestino", lungi dall'essere neutrale, fa riferimento al riconoscimento, effettivo o mancato, di determinati diritti e spinge verso categorie anguste percorsi umani difficilmente classificabili. Quello a cui si assiste in questi ultimi anni però è una novella ossessione rispetto ai profughi, che sono diventati centrali nel discorso politico anche dove non ci sono, un soggetto privilegiato di disinformazione e un capro espiatorio di ulteriori frustrazioni. Quindi credo che il fenomeno migratorio rappresenti un ambito esemplificativo in cui le verità alternative si sovrappongono con forza alla realtà e all'informazione fondata sull'utilizzo di dati verificabili, cercando di spingerle ai margini.